Il futuro? Abbiamo un piccolo problema: lo cerchiamo nel passato. A destra con i ritorni di fiamma per il saluto romano o le divise naziste, tanto macabri quanto carnascialeschi. A sinistra con il rammarico mai domo per la fine delle «grandi narrazioni», che supplisce all’assenza dell’elaborazione di nuovi orizzonti per i diritti, il lavoro, l’emancipazione.

Lo testimoniano certe scelte ricorrenti del cinema italiano, pur sempre rivelatore di sentimenti e umori diffusi. Piazza di Spagna, esterno alba, primi anni ‘50. Una leonessa raggiunge con un balzo la giovane protagonista Mimosa (Rebecca Antonaci) e l’affianca pacificamente lungo la Via dei Condotti deserta. Procedono insieme verso il giorno nell’epilogo di Finalmente l’alba di Saverio Costanzo. Sullo sfondo della tumultuosa Hollywood sul Tevere, fra citazioni di Bellissima di Luchino Visconti e dei cosiddetti «peplum» girati a Cinecittà (da una cui gabbia è fuggita la fiera), il film rievoca il caso Montesi. Il ritrovamento del cadavere della ventunenne Wilma Montesi sulla spiaggia romana di Torvaianica il 9 aprile 1953 scatenò un putiferio di cronaca nera e primordiale gossip sulle presunte orge nella vicina Capocotta, dove nobili, artisti e parvenu – soprannominati «capocottari» dalla stampa – avrebbero irretito e drogato la vittima.

Alla sbarra finì il musicista Piero Piccioni, figlio dell’esponente democristiano Attilio Piccioni, vicepresidente del Consiglio dell’ennesimo governo De Gasperi, nonché all’epoca fidanzato della diva Alida Valli, la quale contribuirà a scagionarlo dall’accusa di omicidio (Piccioni sarà assolto con formula piena nel 1957). Secondo lo storico britannico Stephen Gundle, il caso Montesi resta «il primo grande mistero irrisolto del dopoguerra», che inaugura una lunga sequela dal rapimento e l’uccisione di Aldo Moro all’attentato alla stazione di Bologna, e oltre (Death and the Dolce Vita: The Dark Side of Rome in the 1950s, traduzione Andrea Zucchetti, Rizzoli 2012).

Un altro «mistero», più contemporaneo, è appunto la struggente nostalgia per la stagione corrusca e ferina che dalle macerie del dopoguerra conduce agli esordi dei ’60, gli anni del Boom. Un momento storico colto nel suo farsi dallo scultoreo incipit di L’Orologio, il romanzo di Carlo Levi sul disincanto post-resistenziale (Einaudi 1950): «La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza, il ruggito dei leoni, nel deserto notturno delle case».

Oggi, si dirà, sono i cinghiali erranti e gli smisurati gabbiani a scandire il tempo della Città caput mundi et immundi, metropoli contagiosa: «Capitale corrotta, nazione infetta», scrive Manlio Cancogni nel 1955 su L’Espresso. Eppure, permane un malcelato rimpianto per quella «specie di giungla tiepida, tranquilla, in cui ci si può nascondere bene», come Marcello Mastroianni definisce Roma chiacchierando con l’irrequieta Anouk Aimée in La dolce vita di Federico Fellini (1960).

Noi e il vintage

La dilagante passione culturale per il vintage è analizzata dal critico Emiliano Morreale in L’invenzione della nostalgia (Donzelli 2009), ma negli ultimi anni è diventata via via più consolatoria rispetto alle delusioni della politica, mentre tornavano di scena emergenze sociali ritenute in via di estinzione grazie alle battaglie dei decenni scorsi, in primis le lotte femministe. Così la terribile contabilità delle donne maltrattate, perseguitate e ammazzate ha trovato una forma di riscatto simbolico nel successo di C’è ancora domani di Paola Cortellesi, il film più visto in Italia negli ultimi anni, tanto retrospettivo da essere girato in bianco e nero. Cortellesi conclude con un elogio del voto femminile nella cruciale consultazione del 2 giugno 1946 per il referendum sulla scelta fra Repubblica e monarchia e l’elezione della Costituente.

Piaccia o meno, C’è ancora domani ha intercettato una paradossale nostalgia di futuro. Torna valida un’arguzia di Ennio Flaiano: «Ha una tale sfiducia nel futuro che fa i suoi progetti per il passato» (Diario notturno, 1956). E poco conta che il keynesiano «spirito animale» dell’italiano del Boom contenesse in sé i germi del declino e l’avvento della Grande Bruttezza. L’equivoco o la rimozione si perpetra, perché non siamo disponibili ad ammettere quanto era evidente giusto in La dolce vita: un Paese che crede nel miracolo economico confondendolo qua e là con la corte dei miracoli. Un’Italia in bilico: euforica per celare la depressione; eccitata da Anita Ekberg negli intervalli della malinconia; allucinata e visionaria, tuttavia miope e strabica, se non proprio cieca. Fellini svela la ciclotimia nazionale, l’alternanza umorale, e racconta un mondo sull’orlo della «stupidità delittuosa della televisione» di cui avrebbe scritto Pier Paolo Pasolini.

In questi giorni più d’uno sta «rivedendo» Pasolini in Finalmente l’alba grazie a Willem Dafoe, che col suo volto scavato interpretò dieci anni fa il poeta in un bellissimo film di Abel Ferrara, chiamato da Costanzo nel ruolo di un gallerista d’arte americano a Roma, unica figura compassionevole verso la sperduta Mimosa nei suoi giri fino al termine della notte. Del resto, nel film, la croce sulla spiaggia in memoria di Wilma Montesi inevitabilmente fa pensare al vicino Idroscalo di Ostia dove nel 1975 fu assassinato Pasolini (a proposito di «misteri» italiani), il luogo raggiunto in Vespa da Nanni Moretti nella famosa sequenza di Caro Diario (1993).

Trent’anni dopo Il sol dell’avvenire di Moretti (2023), che col suo titolo aurorale ha preceduto la disposizione d’animo di C’è ancora domani e Finalmente l’alba, insinua un dubbio crepuscolare: «La storia non si fa con i “se”. E chi l’ha detto?». Il tema di fondo, ricordate, è ciò che poteva essere della sinistra italiana e che non è stato. La causa? Magari risale a Palmiro Togliatti, il segretario del PCI che nel 1956 non si schierò con i rivoltosi ungheresi, bensì con gli invasori russi. In Il sol dell’avvenire il segretario della sezione comunista della periferia romana del Quarticciolo, un giornalista dell’Unità con i caratteri tragicomici di Silvio Orlando, ribadisce che non v’è salvezza fuori dalla chiesa (di Mosca), dal Partito, dall’URSS. Extra Ecclesiam nulla salus era una delle frasi sussurrate dal cardinale a Marcello Mastroianni in di Fellini. Nondimeno Il sol dell’avvenire potrebbe ancora sorgere a dispetto di tutte le delusioni-disillusioni, almeno nella cifra leggiadra, circense, musicale, davvero felliniana del settantenne Moretti.

Se nell’aria c’è La bella confusione - il titolo che Flaiano avrebbe voluto per 8 ½, mutuato da Francesco Piccolo per il suo fortunato libro (Einaudi 2023) – la leonessa di Piazza di Spagna è l’Italia di ieri che accosta quella di oggi e ruggisce: c’era una volta il futuro. E ora, ci basta ricordarlo?

© Riproduzione riservata