In questi giorni le scelte compiute da alcune ragazze e ragazzi durante l’esame di maturità hanno avuto una grande attenzione mediatica e aperto un dibattito che, purtroppo, ha in larga parte assunto la forma ormai consolidata della presa di posizione da una parte o dall’altra, con l’approccio da tifoserie che sembra così tanto caratterizzare il nostro tempo.

Sono stati tanti i giudizi espressi sulla loro azione, alcuni anche interessanti, eccezion fatta purtroppo (e lo dico con sincero rammarico) per quelli del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, che ha risposto agli interrogativi non banali che quelle scelte ponevano con la consueta e ormai rodata strategia sanzionatoria. Il modo meno utile per rispondere al tema di fondo che quelle scelte ponevano: la valutazione e il ruolo che essa riveste a scuola, il modo in cui cambiare l’esame di stato, ormai per molti componenti della comunità scolastica superato nell’attuale configurazione.

Ansia valutativa

Mi sono presa qualche giorno per far depositare gli spunti emersi dal dibattito che si è aperto perché, più del clamore del momento, mi sembra interessante ragionare su cosa, in prospettiva, possiamo trarre da queste vicende.

Penso, infatti, che ci sia stata offerta una opportunità per riflettere sul tema della valutazione, un tema così importante sul piano pedagogico e su quello formativo. Una opportunità per la politica che invece che reagire con l’annuncio di sanzioni e punizioni dovrebbe avere la capacità suprema di ascoltare, accogliere e fare sintesi. In questi mesi mi sono trovata a tornare sulle provocazioni importanti e positive che tante volte ci ha lanciato papa Francesco, nello stile e nel merito.

Ho riletto una sua riflessione sulla tomba di Don Milani a Barbiana. Una visita più che storica se pensiamo a come mai Don Milani si fosse trovato proprio lì. Ecco, rispetto a quanto ci diceva la “Lettera a una professoressa”, quanto possiamo ancora trovare nella scuola oggi e quanto in modo diverso ci dicono anche gli episodi di queste settimane? Al netto di tante ottime eccezioni il modello logocentrico, prestazionalista, l’ansia valutativa, il giudizio come una spada di Damocle sono ancora spesso lo spettro che si aggira per le nostre aule, soprattutto via via che si sale di grado.

Sono convinta che tanti bravi educatori potrebbero ben tirare le somme di un percorso di crescita di una ragazza e di un ragazzo indicando punti di forza e di maggiore debolezza su cui lavorare senza bisogno di tanti meccanismi burocratici. Servirebbe lavorare maggiormente sul senso della contemporaneità.

Soprattutto serve la relazione, che sappia trasmettere qualche cosa di importante a questa generazione di studenti in cui il sentimento più diffuso è l'ansia, per i quali la scuola della performance non fa altro che ingigantire questa ansia, rischiando di contribuire a farli sprofondare in baratri psicologici dai quali poi è molto difficile uscire.

Lavorare sulla parola “fallimento”

Serve una scuola che insegni loro a stare nel mondo. Ad affrontare l'incertezza. L’ignoto. Ad affrontare le prove che ci sono e ci saranno senza impazzire di ansia. Insegnare ad avere pazienza. A lavorare duro per ottenere un risultato agognato, senza arrendersi al primo errore o tentativo fallito. Dobbiamo insegnare loro che il giudizio del professore su un compito in classe è diverso dai commenti del social network: serve a migliorarsi, a comprendere dove si è sbagliato.

Serve lavorare sulla parola fallimento ed eliminarla dal vocabolario degli adolescenti. Se, in generale, non va bene per nessuno perché ogni vita è un percorso e non c'è una partita da vincere in ballo, a maggior ragione non può essere un fallito un adolescente che la vita non l'ha ancora vissuta.

E posso dire che su questi temi la pedagogia scrive e sperimenta da decenni e che l’autonomia scolastica che, quest’anno festeggia venticinque anni, offre grandi strumenti per lavorarci.

serve una politica scolastica

Ma soprattutto posso dire - da legislatrice in carica - che il legislatore dovrebbe fare un passo indietro e piuttosto che introdurre nuove norme, inserire ore o materie, inventare Maturità sempre nuove, dovrebbe ridurre il suo carico normativo e lasciar lavorare la pedagogia dando però gli strumenti economici, gli investimenti necessari, offrendo dignità al lavoro del docente in termini di retribuzione, di formazione, di qualità del lavoro. Fare politica scolastica e non dichiarazioni e codicilli.

Sarebbe bello aprire una riflessione profonda su come si valuta e su quali strumenti abbiamo per lavorare sulle diversità e su approcci capaci di tenerne conto. Su come cambiare la didattica. Perché non abbiamo più bisogno di sistemi omologanti ed espulsivi e lo confermano i dati preoccupanti sull’emergenza educativa e anche gli ultimi dati Invalsi relativi alla dispersione implicita. E sarebbe importante che il dibattito sulla scuola non si accendesse e chiudesse come una meteora solo nei giorni della maturità e dell’inizio dell’anno scolastico.

Perché se per crescere il futuro serve un intero villaggio e se il futuro di un paese si trova lì - nelle aule delle nostre scuole - dovremmo occuparcene con molta più costanza e in modo non occasionale. È quel che stiamo tentando di fare dall’inizio del 2025 con i nostri Appunti Democratici e con un lavoro diffuso. Oggi il nostro appello va a quei ragazzi e a quelle ragazze e a quanto hanno sentito il bisogno di dire la loro. Ci interessa. Ci interessa il vostro punto di vista e il vostro contributo. Mettiamoci al lavoro insieme per renderlo concreto all’interno della scuola italiana.

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