Dove eravate, e cosa facevate, il 22 febbraio 2020? Qualcuno lo ha dimenticato? Io ero in teatro: nel pomeriggio traducevo le Rane di Aristofane, alle prove col regista Marco Cacciola, in Sala Fontana a Milano, in previsione del debutto previsto per il maggio 2020. Poche ore dopo in un’altra sala milanese, Spazio Teatro 89, Fabio Treves con la sua Blues Band ci salutava a fine concerto annunciando che spettacoli e concerti erano sospesi, per chissà quanto tempo. Difficile credergli, sulle prime.

Ma la profezia di Cassandra si è avverata. Giù il sipario nei teatri, chiuse le porte di cinema, arene e locali di musica dal vivo, sale da concerto e da ballo. In pochi, e per breve tempo, hanno riaperto. Ci sono stati appelli, manifestazioni, trasmissioni online e in tv. I lavoratori dello spettacolo hanno chiesto di essere riconosciuti come essenziali, di riaprire i teatri come le chiese, perché il teatro è un rito collettivo. Ma per molti mesi quelle porte, a parte poche eccezioni, sono rimaste chiuse.

Un rito collettivo

Si sono riaperte simbolicamente la sera del 22 febbraio 2021, per l’iniziativa “Facciamo luce sul teatro” organizzata da Unita – Unione nazionale interpreti teatro e audiovisivo: per poche ore si sono illuminati palchi e foyer, organizzati incontri, letture, recite a distanza, raccolti i messaggi di un pubblico fedele e affezionato che di quei luoghi, riti e persone sente dolorosamente la mancanza, ed è ricambiato.

«Il teatro aspetta i vostri pensieri, emozioni, passioni, risate, applausi»: non uno slogan, ma un grido accorato scorre sugli schermi del teatro Elfo Puccini di Milano, nel silenzio calato sullo spettacolo dal vivo. Proprio quella sera mi collegavo in video con Bryan Doerries, regista e classicista statunitense: discutevamo del nostro lavoro, tra università e teatro, per la rubrica Concime di Radio IULM. Concordavamo sul fatto che il teatro non è divertimento o svago, bene accessorio o di lusso, ma è un rito collettivo terapeutico e necessario. Lo è sin dalle origini e più che mai di questi tempi: un vero e proprio antidoto per curare i nostri mali, passati e presenti, incluso il virus.

Teatro di guerra

Personalmente l’ho sostenuto in varie interviste (per radio Iulm e segnidinfanzia.org) e articoli: Doerries ne è un perfetto esempio, col suo “Teatro di Guerra”. Dal 2009 la sua missione, ispirata da una tragedia personale, è aiutare con il teatro chi soffre, specialmente per effetto di traumi o violenze: vittime di guerra e di tortura, militari in preda al cosiddetto stress post traumatico (Ptsd), a rischio depressione e suicidio, e potenziali minacce per i loro familiari.

Il teatro terapeutico è un’invenzione antica, ma ancora efficace: per vincere le resistenze degli interlocutori, e liberarli dai demoni, Doerries propone loro di partecipare a letture sceniche di drammi classici, scegliendo in particolare quelli che trattano simili traumi e le loro conseguenze, inclusi attacchi di follia suicida e omicida. Ognuno può rivedere sé stesso in Aiace o Filottete, i suoi cari nelle famiglie dei Greci o dei Troiani. Il rispecchiamento innesca un dibattito che a sua volta può aprire un percorso di cura. Questa semplice formula si è rivelata vincente prima della pandemia: Doerries ha al suo attivo molte migliaia di repliche, ha ricevuto ingenti finanziamenti dal Pentagono e da istituzioni pubbliche e private.

Il rapporto con il pubblico

Con la pandemia è venuto a mancare il primo fondamento del teatro, il rapporto diretto col pubblico, ma la platea si è immensamente allargata: agli ex militari si sono aggiunti medici in prima linea e infermieri delle ambulanze, familiari dei malati e vittime del Covid.

Doerries, vincendo le iniziali resistenze, ha fatto di necessità virtù: ha organizzato letture sceniche gratuite di drammi classici in streaming, introdotte da lui e seguite da dibattiti con ospiti di rilievo o gente comune, ma fortemente coinvolta. Ha via via reclutato attori di teatro e cinema di fama mondiale, raggiungendo un pubblico globale in continua espansione: molte migliaia di persone collegate in contemporanea da ogni parte del mondo.

Edipo in streaming

Basti citare The Oedipus Project, dall’Edipo Re di Sofocle, che vanta star come il premio Oscar Frances McDormand (Giocasta), o Damian Lewis (Edipo) noto ai più per la serie tv Homeland, dove interpreta un ruolo molto ambiguo: il soldato Usa Nicholas Brody, prima prigioniero dei terroristi islamici, poi rientrato in patria e sospettato di essere un traditore e una minaccia per la patria. Nel suo personaggio possiamo cogliere echi sia dell’Aiace di Sofocle – cavallo di battaglia di Dorries, non a caso – sia dell’Edipo Re.

Edipo è solo in apparenza un buon sovrano, in realtà è un parricida incestuoso e cerca di curare la città da un morbo mortale che lui stesso ha inconsapevolmente scatenato. Nei versi di Sofocle sentiamo risuonare l’eco della pandemia che devastò realmente Atene in quegli stessi anni.

Fa rabbrividire oggi sentir pronunciare “peste” sullo schermo, da attori senza trucco, in primo piano, singoli o in più finestre, alcuni su sfondo neutro, altri ritratti nel salotto di casa, coi rispettivi ruoli scritti in didascalia (il coro è ridotto al solo corifeo). Perfino in questa modalità il testo mantiene la sua inesorabile e spietata necessità: anzi i personaggi appaiono ancora più soli, isolati, sospesi in un limbo. Ci guardano direttamente, attraverso la videocamera, si rivolgono sussurrando o urlando a ciascuno di noi. L’eco delle loro parole è talmente potente che quasi ci sembra di essere a teatro. Quasi. Ma non è poco, di questi tempi.

Contaminazioni

La rilettura di Doerries fa risaltare gli elementi della trama (colpa, peripezia, rovesciamento) che la rendono tristemente profetica, ma al tempo stesso le restituisce nuova vita come rito collettivo e terapeutico. Nel transfert coi personaggi in scena, gli spettatori partecipano al dramma e rinnovano il proprio, ma si sentono anche sollevati, liberati. La tragedia torna ad assolvere la sua funzione catartica.

Certo, è impietoso il confronto con il teatro visto dal vivo (nel mio caso l’ultima versione di Edipo Re, Verso Tebe di Bruni e Frongia, al teatro Elfo Puccini, 21 febbraio 2020). Ci rendiamo conto di quanto i mesi intercorsi, senza teatro, ci abbiano cambiati tutti. Anche come spettatori.

La contaminazione tra performance live, video, nuove tecnologie è iniziata molti anni fa. Ma la pandemia le ha impresso un’accelerazione, ha cambiato e stravolto le regole e ci ha fatto compiere un balzo in avanti. Questi cambiamenti naturalmente non mancano di suscitare diffidenza, dissenso e critica.

Il purista può sempre obiettare che la performance per essere tale deve avvenire rigorosamente dal vivo, e io stessa in effetti vivo una contraddizione: da grecista e docente di teatro, inauguro i miei corsi ricordando che “teatro” è per etimologia contenitore e contenuto – il “luogo da cui si guarda” e quel che ci avviene dentro – ma per scopi didattici, di studio e di ricerca ricorro necessariamente a spettacoli registrati, quando non è possibile vederli in scena, a maggior ragione ora.

La magia

Di certo non si può ricreare sullo schermo la magia che avviene dal vivo. Eppure da sempre i drammi antichi svolgono una funzione terapeutica, sul piano privato e collettivo (Aristotele docet) come antidoto, cura d’urto, balsamo lenitivo, contro i traumi passati e presenti: la malattia, la perdita, la morte, a cui la tragedia greca lega la propria origine, si elaborano e si superano attraverso i riti del pianto e del lutto, che il virus ha inibito in quest’ultimo anno, ma che il teatro può ricreare.

Il 1 settembre 2020 il settimanale New Yorker pubblicava un articolo di Elif Batuman intitolato La tragedia greca ci aiuterà a uscire dalla pandemia?. Il titolo ci riporta al nocciolo della questione: il teatro ci salverà? O almeno ci aiuterà a superare questo momento?

I luoghi di spettacolo sono stati quasi sempre chiusi, in quest’ultimo anno, proprio quando tutti noi ne avevamo più bisogno. Il 27 marzo scorso si è celebrata, tra manifestazioni e occupazioni simboliche, la giornata mondiale del teatro. In quell’occasione il ministro Dario Franceschini ha promesso di riaprire i teatri appena possibile, ma i rappresentanti delle categorie professionali coinvolte chiedono di più: rendere le riaperture economicamente sostenibili, rivedere le condizioni lavorative e i contratti del settore, garantire tutele e diritti.

Non basta riaprire, bisogna riformare l’intero sistema, permettere a chi lavora in teatro – e nello spettacolo dal vivo – non solo di sopravvivere, ma di vivere pienamente, davvero, e condividere la propria arte. Per il bene loro, nostro, e dell’intero paese.

Se non ora, quando?

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