Il primo conflitto mondiale e le guerre in corso: cambiano i nomi, le armi, le tecnologie. Ma il dolore resta identico e le tombe riempiono di innocenti oggi come allora. Le ragioni dell’umanità ci impongono il rifiuto della guerra
Al liceo ho sempre adorato la matematica (infatti poi mi sono laureato in Statistica), ma quella traccia di storia della prova di italiano sul conflitto tra interventisti e neutralisti alla vigilia della Prima guerra mondiale svolta alla maturità di quasi quarant’anni fa me la ricordo ancora. Mi colpì perché parlava di una scelta epocale: entrare o no in guerra. Oggi, con gli occhi di adulto e di cittadino del mondo, mi accorgo di quanto quella scelta — e tante altre simili — abbiano segnato la storia in modo irreversibile. Con amarezza, prendo atto che in più di cento anni le guerre non sono diventate un ricordo, ma restano un dramma sempre attuale. L’umanità, nel suo ripetere gli stessi errori, è la vera sconfitta.
C’è un silenzio che ancora oggi pesa come pietra tra le montagne del Carso, tra le rocce che ricordano ogni passo, ogni urlo, ogni colpo sparato in nome della patria. Era la Grande Guerra. Una guerra di trincea, di fame, gelo e paura. Migliaia di giovani italiani morirono senza nemmeno capire davvero perché. Con in tasca lettere mai spedite e il volto segnato dalla notte, morivano ventenni, lontani da casa e dai sogni.
Non c’era solo eroismo, ma anche resistenza. Non c’era solo gloria, ma anche la fatica amara di sopravvivere. Uomini piegati nel corpo e nello spirito, con in tasca la fotografia sbiadita di una madre o di una promessa lontana. E intorno a loro, l’assurdità di morire per qualche metro di terra intrisa di sangue.
E anche quando sembrava non esserci più nulla, qualcuno, come Giuseppe Ungaretti, riusciva ancora a scrivere: "M’illumino d’immenso". Era l’improvvisa, intensa percezione della bellezza e vastità della vita, anche nel buio della guerra. Era lo stupore improvviso della vita che, anche nel cuore della morte, sapeva ancora accendersi per un attimo. Era la luce interiore che resisteva, fragile ma viva, nell’oscurità della guerra.
Oggi, a più di un secolo da allora, le trincee esistono ancora. Non più nel Carso, ma a Gaza, in Ucraina, e ora, minacciosamente, anche in Iran. Cambiano i nomi, le armi, le tecnologie. Ma il dolore resta identico e le tombe continuano a riempirsi.
A Gaza, la trincea è una casa crollata. È un bambino che non sa più dove sia sua madre. È l’aria che odora di polvere, è la vita che si spegne tra le urla e il buio. Lì si muore civili, si muore innocenti. Non c’è un fronte chiaro: tutto è bersaglio.
In Ucraina, la guerra è tornata a sembrare quella di un tempo. Trincee di fango, soldati giovani, madri che piangono nello stesso modo. Anche lì si parla di patria e resistenza. Ma ogni sparo spezza un legame invisibile tra gli esseri umani, qualcosa che va oltre le bandiere.
E ora, l’ombra si allunga sull’Iran. Un nuovo baratro si apre in un mondo già lacerato. Il rischio non è solo geopolitico: è profondamente umano. Ancora una volta saranno i padri, le madri, i figli a pagare il prezzo dell’odio. Ancora una volta, le madri seppelliranno i figli.
Siamo tornati a scavare trincee, ma stavolta lo facciamo con i droni e i satelliti. Non cambia nulla, però. Le lacrime hanno sempre lo stesso sapore. Il dolore non ha epoche.
Quante volte dovremo piangere? Quante volte ancora i poeti dovranno trovare parole nel sangue?
Il secolo breve è passato, ma il dolore è lungo. Non bastano più le commemorazioni solenni, le corone d’alloro, i discorsi. È il momento di ascoltare quel silenzio che sale dai campi di battaglia di ieri e di oggi. Un silenzio che non chiede vendetta, ma pace.
Perché ogni guerra è l’ultima per chi muore. Ma per chi resta, è sempre l’inizio di qualcosa che lacera. È paura. È assenza. È memoria che brucia.
Forse non possiamo fermare tutte le guerre, non da soli. Ma possiamo scegliere da che parte stare: da quella della vita, della dignità, dell’ascolto. Anche nel buio più fitto, c’è chi accende una candela. Ed è da quella luce fragile, ostinata, che può ancora nascere un domani diverso. Più giusto. Più umano. Finalmente in pace.
Eppure, guardando il mondo di oggi, dobbiamo riconoscerlo con amarezza: quella candela vacilla. Secondo l’Unicef, nella Striscia di Gaza, più di 50.000 bambini sono stati uccisi o feriti dall’ottobre 2023. È un numero che non dovrebbe esistere. È l’umanità intera che, in quei corpi piccoli e innocenti, ha perso qualcosa di sé. Non una battaglia. Ma la propria coscienza. Perché quando i bambini diventano bersagli, quando la guerra non risparmia neppure l’infanzia, non c’è vittoria possibile. C’è solo un silenzio assordante, che non consola, che non giustifica. Ma quel silenzio deve diventare un grido. Un grido di ribellione, di umanità, di rifiuto della guerra. E dentro quel grido, un dovere: ricordare, reagire, scegliere la pace. Prima che sia troppo tardi. Ancora una volta. Per sempre.
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