Nel suo ultimo libro, La città dei vivi (Einaudi 2020), Nicola Lagioia racconta dell’omicidio di Luca Varani, un ventenne romano ucciso da due uomini poco più grandi lui, la notte del 3 marzo 2016.

Lagioia, passo dopo passo, ricostruisce la cronaca di un assassinio ma anche, e forse soprattutto, la cultura, l’immaginario, che abitano le menti dei protagonisti di questa vicenda che non sono soltanto la vittima e i suoi carnefici, ma anche un sistema dell’informazione che non vede l’ora di avere fra le mani storie del genere. Sesso, depravazione, prostituzione, omosessualità e, ingrediente scontato, droghe.

Drogare qualcuno per poi abusarne è un tema che ritorna nelle biografie di uno dei protagonisti. «Sui giornali c’era scritto che mesi prima Marco Prato aveva sequestrato un ragazzo, lo aveva fatto drogare e aveva abusato di lui».

Ancora Lagioia, immaginando un dialogo fra i due assassini: «Se mescolavi XXX (nome di un farmaco nda) con l’alcol, disse, rischiavi di collassare, ottenevi l’effetto della droga dello stupro. Bere. Stuprare. Forse ammazzare». Bere, stuprare.

Nel 2018 è una ragazza a Porta Romana a Milano a denunciare di essere stata drogata e poi violentata da tre “amici”. La droga dello stupro esce fuori anche nel caso di Alberto Genovese, l’imprenditore accusato di aver narcotizzato e poi abusato di alcune ragazze durante feste tenute nel suo appartamento di Milano. E potremmo citare altri casi.

Lo stupro e la droga

Foto Francesco Fotia/AGF

La droga, in ognuno di questi fatti di cronaca, funziona giornalisticamente per mettere in secondo piano quella che è, senza dubbio, la notizia più atroce, cioè il fatto che nel 2022 la pratica dello stupro continua a essere molto più diffusa di quanto vorremmo credere, e, soprattutto, che nella maggior parte dei casi chi stupra conosce la propria vittima che si fida e si affida, è proprio il caso di dirlo, esponendo la propria vulnerabilità resa più acuta dall’uso di droghe e alcol.

Un dato, questo, messo in luce ormai da decenni nella pubblicistica anglosassone ma che, invece, in Italia viene sempre sottolineato con sorpresa quando è la norma.

Ma di cosa parliamo quando parliamo di droga dello stupro? Le cosiddette droghe dello stupro sono una serie di sostanze con effetti sedativi, ipnotici, o dissociativi che, somministrate a vittime inconsapevoli, ma anche consapevoli, rendono più semplice esercitare una violenza sessuale. Non sono certo una novità.

Da sempre le sostanze psicoattive sono state impiegate per inebriare e inebriarsi e da sempre è esistita la possibilità che di fronte a una perdita di controllo qualcuno “se ne approfittasse” anche in forma violenta. Perché, allora, da noi se ne parla come se fossero un fenomeno nuovo?

La cultura dello stupro

Molto probabilmente questo ha assai poco a che vedere con le sostanze impiegate e molto con la nuova consapevolezza di chi, finalmente, denuncia questo tipo di abusi, un tempo troppo spesso considerati inevitabili: mi sbronzo, vengo stuprata, me la sono cercata.

La declinazione al femminile è inevitabile perché la maggior parte dei casi di stupro riguarda donne, ma, evidentemente, questo tipo di violenza è diffuso anche in contesti esclusivamente maschili, come ha dimostrato per esempio il caso Varani.

Eppure, malgrado questa nuova consapevolezza, che ha fatto sì che negli ultimi anni siano venuti alla luce anche tanti episodi del passato, articoli di giornale, servizi televisivi, persino sentenze di tribunale, continuano a veicolare un’odiosissima “cultura dello stupro”, cioè una serie di luoghi comuni che renderebbero uno stupro un fatto socialmente accettabile se perpetrato su una donna “facile” o “sballata” o vestita in un certo modo o, accade assai spesso, con la quale si ha già una relazione.

Per questo si separa nettamente, nel discorso pubblico, la persona “drogata” surrettiziamente e poi abusata, da quella “soltanto” sbronza, o “fuori”, che dunque «avrebbe potuto stare più attenta».

Stando a quello che accade nei college americani, invece, aumenta il numero di ragazze e ragazzi che denunciano violenze dei propri partner perpetrate dopo una serata fuori.

Violenze che la giurisprudenza valuta come altrettanto gravi rispetto a quelle perpetrate su vittime del tutto inconsapevoli (e non abbiamo cifre che raccontano il numero di donne costrette a compiere atti sessuali entro la rassicurante cornice della famiglia).

Una precisazione inutile? No. Perché, e vale la pena ripeterlo, in Italia quando si parla di droga dello stupro ci si concentra solo sulla parola droga e troppo poco sulla parola stupro.

Si invitano così le ragazze a non accettare bevande dagli sconosciuti, a usare cannucce speciali e bevande sigillate, a tenere sempre in mano il loro bicchiere e non, invece, i ragazzi ad avere comportamenti sessuali corretti. 

La prima “droga” dello stupro è, dunque, senza dubbio, la nostra cultura che non prevede sempre e in ogni circostanza un consenso consapevole quando in gioco c’è un rapporto sessuale.

Fuor di metafora, comunque, in termini statistici, la prima droga dello stupro è l’alcol. Ma anche questo in Italia si fa finta di dimenticarlo. Numerose ricerche condotte negli Stati Uniti hanno dimostrato come il 46 per cento dei casi di stupro nei college sia accompagnato dall’alcol e solo il 2 per cento da narcotici.

Di contro, solo una percentuale bassissima di persone se ne rende conto e attribuisce la “colpa” di queste violenze ad alcune sostanze (12 per cento). Alle cosiddette droghe dello stupro, appunto.

Ecstasy liquida

Per droga dello stupro si intendono, infatti, comunemente il Ghb, il Gbl e alcuni tipi di benzodiazepine. Secondo la Relazione al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze (2022): «Il Ghb o acido gamma-idrossibutirrato (sic) è comunemente conosciuto come “Ecstasy liquida”: si presenta come una polvere incolore o un liquido quasi inodore e dal sapore poco riconoscibile. Il Gbl (gammabutirrolattone) e il Bdo (1,4-Butandiolo) sono precursori del Ghb, sono sostanze idrosolubili e possono essere facilmente aggiunte alle bevande, anche all’insaputa dell’assuntore: per questo motivo, sono anche note come “droghe dello stupro”».

Come se, per l’appunto, l’atto dello stupro, potesse essere legato in qualche modo a un prodotto chimico/farmaceutico peraltro prescritto per alcune patologie croniche.

Ancora la Relazione parlamentare già citata, dunque specifica che incriminato è il mercato nero della sostanza, e il suo abuso: «Il Ghb è una sostanza relativamente facile da ottenere, anche tramite kit reperibili su Internet. Questa viene utilizzata in particolar modo fra i giovani adulti, soprattutto in contesti di aggregazione come discoteche, festival e nightclub, tanto da essere annoverata fra le “party drugs” insieme ad amfetamine e metamfetamine».

Chemsex

Gli effetti di Ghb, Gbl o delle benzodiazepine variano a seconda del dosaggio, e dei soggetti che le assumono: possono provocare «euforia, rilassamento, disinibizione, intensificazione delle capacità percettive, loquacità, leggeri capogiri, sonnolenza, sonno profondo (comatoso) o perdita di coscienza».

La perdita di coscienza si ottiene con dosaggi estremamente alti, e apparentemente poco frequenti, mentre piuttosto frequente è l’uso di questo tipo di sostanze in contesti definiti di chemsex, cioè sesso chimico.

Un «neologismo coniato dal britannico David Stuart, il maggior esperto e attivista su questo tema, che descrive un fenomeno diffuso esclusivamente nella comunità degli uomini gay e riguarda l’uso di quelle droghe dette appunto “chems”, in particolare chrystal meth, mefedrone e Ghb/Gbl (la “droga dello stupro”) in associazione con altre sostanze come ketamina, cocaina, popper, alcol e altre ancora, per facilitare, migliorare e prolungare l’esperienza sessuale».

Appare evidente, allora, un intento moralistico che associa comportamenti sessuali promiscui o giudicati riprovevoli a un comportamento violento e illegittimo come lo stupro.

Ancora una volta, dunque, è necessario guardare ai soggetti che consumano (o inducono a consumare) la sostanza, più che alla sostanza in sé. Questi farmaci/droghe, infatti, possono essere assunti in modo del tutto consapevole, come nel caso del chemsex, oppure essere somministrati alle vittime a loro insaputa, in bevande alcoliche per esempio.

Un comportamento definito drink spiking, un fenomeno così raccontato dalla cultura di massa (cinema, serie tv) da aver, appunto, generato una precisa definizione. Il drink spiking si associa all’altra espressione date rape drugs, droghe per stuprare in occasione di un appuntamento (una traduzione letterale che rende bene l’idea del contesto a cui ci si riferisce).

Assai raro, invece, il caso della bevanda drogata da sconosciuti che è una delle più longeve leggende propinate a ogni ragazza quando inizia a uscire la sera, da che mondo è mondo.

Negli anni Ottanta, per esempio, si era diffusa la bufala di un negozio del centro di Roma dove le ragazze venivano prima drogate e poi immesse, contro la loro volontà, ovviamente, nel circuito della “tratta delle bianche”. Una bufala che a sua volta ricalcava una storia simile di provenienza americana che è alla base dei miti metropolitani sul drink spiking.

Party drugs

In Italia si usa l’espressione “droga dello stupro” dai primi anni del nuovo millennio, cioè da quando hanno preso piede le cosiddette “nuove droghe”.

In realtà, spesso, queste sostanze sono già impiegate in ambito farmaceutico e, parlando di Gbl e Ghb, il loro impiego è assai meno frequente di quello di altre sostanze, come alcol o cocaina o benzodiazepine come il Valium o lo Xanax. Del resto fin dagli anni Settanta alcuni farmaci come il Metaqualone sono stati considerati “droghe dello stupro”.

Secondo Philip Jenkis, autore di Synthetic Panics (1999), uno dei primi studi culturali sulle “party drugs”, l’attenzione verso il Ghb cresce a partire dagli anni Novanta e l’allarme contro l’ecstasy.

Fino agli anni Ottanta, infatti, era legale e assai diffusa fra i culturisti, nel 1990 la Food and Drug Administration l’ha classificata come “droga” e non più integratore alimentare. «Tuttavia, la carriera del Ghb era solo all’inizio. Forse è stato grazie al legame con il body-building che ha preso piede nel circuito sociale gay e poi nella vita dei club più in generale. Come scrisse un anonimo appassionato sul Web, “Ha quasi sostituito l’ecstasy (Mdma), ed è ora in prima linea in quella che sembra una nuova rivoluzione della droga”».

Sebbene all’inizio degli anni Novanta si sia diffusa una pubblicità ostile nei confronti del Ghb, la droga è rimasta legale secondo le norme federali, tanto che la sua produzione è stata regolamentata solo dalla Fda e non dalla Dea».

Secondo Salvatore Giancane e Ernesto De Bernardis, autori di uno dei pochi studi sull’argomento: «La situazione italiana è finora limitata ad alcune descrizioni aneddotiche, ed è stata in parte viziata dall’uso di metodi analitici poco sensibili che possono dar luogo a falsi negativi. Non sono disponibili dati epidemiologici perché a lungo non vi è un organo istituzionalmente deputato a raccogliere e catalogare i casi di Vsfs, per quanto nel 2011 il Dipartimento Politiche Antidroga abbia avviato un progetto di raccolta dati, con un coordinamento di 30 dipartimenti di emergenza aventi come capofila il centro antiveleni di Pavia, e una specifica procedura analitica su campioni biologici da attivare dopo disponibilità e consenso informato della vittima; i dati dovrebbero confluire negli archivi dell’Osservatorio nazionale permanente sulle droghe e sulle tossicodipendenze, ma ad oggi non sono ancora stati resi pubblici» (Le violenze sessuali facilitate da sostanze, 2017).

Questa mancanza di informazioni certe crea problemi di non poco conto, per esempio nel gettare un alone immotivato di sospetto su farmaci fondamentali nella terapia contro l’alcolismo.

Luoghi comuni

In Le droghe, in sostanza (Iperborea 2022), si legge che «per chi si occupa di terapie per le dipendenze il fatto che il Ghb e il Gbl abbiano una cattiva reputazione è un problema: la nomea ha limitato l’uso dell’Alcover, che oggi può essere usato solo in caso di sindrome astinenziale da alcol acuta, a un massimo di dieci giorni, a fronte della possibilità che possa essere utile anche in fasi successive della terapia per l’alcolismo, per evitare ricadute e i sintomi sgradevoli del craving, cioè il desiderio di tornare ad assumere la sostanza».

Insomma, ancora una volta possiamo osservare come ragionare attraverso slogan, luoghi comuni e frasi fatte non aiuta a comprendere i fenomeni e soprattutto a mettere in crisi modelli sbagliati che riguardano, davvero, la nostra idea di relazione con gli altri piuttosto che quella con le sostanze.

Uno slogan femminista recita: «Rape is about power, not sex» (ovvero, «lo stupro ha che fare con il potere, non con il sesso»). Ecco.

Allo stesso modo occorre essere molto chiari: lo stupro ha a che vedere con la cultura delle persone che lo compiono e non con le droghe che queste stesse persone prendono o fanno prendere a qualcun altro.

Nel paese in cui, in occasione del #metoo alcuni giornali hanno scritto, nero su bianco, «tribunale del popolo contro tutti gli uomini» o «maccartismo da cerniera lampo», è bene, sempre, ricordarselo.

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