Il tema delle politiche securitarie ha avuto sempre una certa rilevanza in Francia, dove il paradigma della tutela delle libertà civili è sempre stato declinato con grande attenzione anche quando la post-modernità ha cominciato a presentare il conto della società del rischio, delle diseguaglianze sociali, della criminalità diffusa, delle istanze di riscatto non soddisfatte di giovani provenienti da famiglie di immigrati di seconda o terza generazione.

La sociologia della polizia

È noto infatti che proprio in Francia alla fine degli anni Novanta del secondo millennio è sorto l’importante filone di studi della Sociologie de la police che ha influenzato anche una nuova concezione di “fare polizia” in Europa, inclusa l’Italia. È l’epoca dei programmi della Commission des maires sur la sécurité, noti come Rapporto Bonnemaison (1981), della police de proximité, e della police communautaire, in cui rispetto al modello degli assetti militarizzati e delle unità speciali delle forze di polizia si preferì un modello di “polizia sociale” che promuoveva la prevenzione con la presenza dissuasiva, la prevenzione situazionale e il dialogo: nascono le “politiche integrate di sicurezza”, in un’ottica di governance e di collaborazione inter-istituzionale tra prefetture, enti locali, forze di polizia e associazioni variamente rappresentative della società civile.

Le analisi sociologiche in Francia sono poi radicalmente mutate nel porre in evidenza un ben diverso modello di polizia a partire dalle prime rivolte del 2005, per arrivare a quelle dei gilets jaunes del 2018 e alle più recenti contro le politiche fiscali e la riforma delle pensioni. Una delle analisi più critiche è stata espressa da Alain Bertho, professore emerito di antropologia all’università Paris 8-Saint-Denis, cha ha studiato il tema delle rivolte delle banlieue.

La sua tesi è che i governi, di fronte alla evidenza dei fattori destabilizzanti di carattere sociale all’origine delle ribellioni, piuttosto che la strada di una verifica sul campo per promuovere radicali programmi di inclusione sociale hanno privilegiato un percorso di repressione della polizia nei confronti di tutti quanti protestano, siano giovani delle periferie, operai, impiegati, che altri citoyens aderenti a movimenti sociali che contestano il governo.

Per Bertho dunque anche le vicende dell’uccisione di Nahel Merzouk a Nanterre il giugno scorso non fanno che confermare la spinta del potere politico verso la direzione di uno «Stato d’eccezione», ricorrendo a norme varate contro il terrorismo con esiti sempre più gravi per la vita quotidiana delle persone. Per l’antropologo di Paris Saint-Denis il riscontro più eloquente lo si è avuto proprio con il varo della Loi n. 2017-258: l’impiego delle armi da fuoco da parte delle forze di polizia ha portato al raddoppio delle uccisioni rispetto al precedente decennio, che sono arrivate ad essere 40 nel solo 2020, 52 nel 2021, 39 nel 2022 e già 13 nel 2023.

Le accuse

Un giovane sociologo più radicale, Mathieu Rigouste, ha invece seguito un altro approccio. Si è ricollegato alla letteratura americana che sulla vicenda dell’afroamericano George Floyd, ucciso a seguito di una brutale tecnica di immobilizzazione di un agente, ha ricondotto le matrici originarie della violenza della polizia al «razzismo sistemico» che strutturalmente caratterizzerebbe la società statunitense. Allo stesso modo – ha scritto Rigouste sul Guardian – «la moderna polizia francese è modellata sulla violenza della sua storia», una storia legata al controllo dell’ordine coloniale, esasperato per ultimo dalla dottrina della contro-insurrezione nella guerra in Algeria.

E, con riferimento al presente, accusa: «Il presidente vuole presentare l’agente autore del gesto come responsabile a livello individuale, per nascondere la dimensione sistemica degli omicidi di polizia». Ma non è solo la legge del 2017 ad essere messa sotto accusa. La questione concerne il modello fondamentalmente repressivo delle forze di polizia documentato dall’ inasprimento degli scontri con esiti letali e diffusi "ferimenti gravi" nelle manifestazioni di piazza di questi ultimi anni. Si è parlato in particolare di cecità e amputazioni in specie per i colpi dei LBD, lanceur de balles de défens, che sparano fino a 30 metri granate di gomma del diametro di 4 centimetri, autorizzati sin dall’epoca del ministro Castaner.

Si tratterebbe di armi sub-letali, utilizzate a scopo dissuasivo e pertanto con lo scopo di non uccidere o ferire gravemente, ma questo è possibile  solo se il loro impiego è attuato ragionevolmente e non è a distanza ravvicinata. Secondo le stesse fonti del Ministero dell’interno nelle ultime manifestazioni del 1° maggio contro la riforma delle pensioni sono stati operati 540 fermi e lanciati in meno di due ore più di 5.000 granate esplosive sugli attivisti: più di 40 granate al minuto.

Altro esempio di una deriva repressiva dell’ordine pubblico è individuato nella scelta di impiegare – con frequenza e non solo nel caso delle provocazioni violente dei movimenti antagonisti – le Brigades de répression des actions violentes motorisées, le BRAV-M, unità speciali create durante i moti dei gilet gialli che da allora agiscono in moto con l’obiettivo di disperdere rapidamente i cortei, e lo fanno intervenendo contro i manifestanti in maniera indiscriminata, gettandoli a terra, colpendoli alla schiena, e picchiando a caso persone che attraversavano il loro percorso.

Per queste ragioni diverse interrogazioni parlamentari hanno richiesto lo scioglimento di queste unità, mentre sulla gestione dell’ordine pubblico in generale Amnesty International ha promosso azioni giudiziarie, anche rifacendosi ad un esplicito atto d’indirizzo del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic: «Le condizioni di esercizio della libertà di espressione e di riunione in Francia, nel contesto della mobilitazione sociale contro la riforma delle pensioni, sono apparse preoccupanti per l’uso eccessivo della forza».

Porre fine alla brutalisation 

A parlare espressamente di brutalisation de l’ordre public è Laurent Bonelli, professore di Scienze politiche a Paris Nanterre. La tesi pone in parallelo la dottrina del 2002 sul "Programma per la sicurezza interna" quando si decise di smilitarizzare l’ordine pubblico e privilegiare il modello negoziale di gestione dei troubles teorizzato dal generale della Gendarmeria Bertrand Cavallier e dal commissario Jean Marc Berlioz, della Prefettura di Parigi. Secondo Bonelli, prescindendo dalla lotta al terrorismo jihadista dove è prevalso l’approccio investigativo e comunque legalitario, le scelte delle élite oggi al governo in Francia sulle proteste di piazza vanno in direzione opposta: si rifiuta in premessa ogni negoziazione, non riconoscendo che nelle manifestazioni che contestano il governo si dà espressione alla democrazia.

Anche per Jacques de Maillard, professore all’università di Versailles Saint Quentin en Yvelines e a Sciences Po Saint Germain en Laye, la «gestione negoziata dei conflitti sociali» è stata sostituita da un modello repressivo di tutela dell’ordine pubblico, anche quando non giustificato da atti violenza dei manifestanti,  dove «lo scopo sembra essere quello di impedire le proteste, piuttosto che facilitarne il regolare svolgimento». Da qui il dibattito - per ora non reso pubblico dalle strutture della police e della gendarmerie - che richiama un ritorno alla dottrina tradizionale dell’ordre public basato sulla prevenzione, sulla persuasione e sulla negoziazione, evitando che il ricorso all’uso della forza in maniera indiscriminata si rilevi fattore di escalation dell’inasprimento dello scontro sociale.

Per il sociologo de Maillard l’ordine politico deve recuperare la sua legittimità senza abusare della forza, e «deve d’ora in poi adattarsi alla necessità di garantire la pace e la sicurezza, rafforzando l’autorità dei suoi agenti agli occhi di una società francese sempre più varia e disuguale». Oggi la democrazia rappresentativa «viene strutturalmente messa in discussione», e sicuramente emergeranno nuove forme di protesta, per cui è fondamentale «ripensare a come viene mantenuto l’ordine pubblico, bilanciando l’uso legittimo e proporzionale della forza con il rispetto delle libertà». Un monito che vale non solo per la Francia, che in sostanza richiama la politica al suo ruolo di ricercare sempre un  dialogo aperto e profondo con la società civile. 

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