Fumata bianca questo giovedì dal vertice dei capi di stato e di governo: il Consiglio europeo ha dato via libera ai negoziati con Kiev per l’ingresso dell’Ucraina nella Ue. Niente veti ungheresi: Viktor Orbán non ha partecipato al voto decisivo.

Con la propria opinione pubblica, addestrata da tempo alla retorica antiucraina e antieuropea del premier, Orbán se la caverà dicendo semplicemente che non era in sala; si è alzato mentre si decideva, così non si può dire che abbia detto sì all’Ucraina nell’Ue. «È una pessima decisione», ha subito scritto sui social. «L’Ungheria non vuole far parte di questa decisone sbagliata». Ma nessuno era lì a dire di no. «Assenza concordata», così la chiamano nei corridoi del Consiglio europeo.

La «assenza concordata» di Orbán vale un successo per Volodymyr Zelensky, in tempi difficili, e cioè mentre da Washington spirano venti freddi. Quella «assenza» sarà anche un grimaldello per Giorgia Meloni, anche in questo caso in tempi difficili: fino alle ultime, febbrili ore di trattative, la premier ha esibito il proprio ruolo di pontiere con il despota ungherese, e ora spera di spenderlo nelle proprie trattative con Berlino.

La prospettiva dell’allargamento rappresenta un compromesso dal retrogusto amaro per l’Unione europea, perché l’apertura a Kiev e Chișinău si affianca alle aperture all’autocrate ungherese; il che per la tenuta democratica e per l’integrazione politica non può dirsi esattamente un trionfo.

Ha ragione Ursula von der Leyen quando sancisce che il sì a Kiev «è un giorno storico per l’Unione»; ma anche dei suoi sì a Orbán resterà traccia nel lungo periodo.

Dal veto all’«assenza»

C’è una storia che a Bruxelles raccontano dai tempi di Angela Merkel: il cattivo supremo, Viktor Orbán, con il suo veto tiene in ostaggio tutti gli altri membri. E sempre dai tempi di Merkel, va a finire che l’Unione europea, con il beneplacito di Berlino e con la compiacenza della Commissione, cede ai ricatti orbaniani, asseconda, negozia; e il veto cade.

Succede quando il passaggio è «storico», come direbbe von der Leyen. Sul finire del 2020 – e sul finire di cancellierato e presidenza di turno merkeliane – l’Ungheria, e la Polonia all’epoca ancora guidata da Mateusz Morawiecki, tenevano in scacco i piani di ristoro pandemici. Merkel all’epoca ha sbloccato Next Generation EU, ma in cambio ha promesso a Orbán che il meccanismo che vincola i fondi Ue al rispetto dello stato di diritto sarebbe stato applicato solo dopo le elezioni ungheresi. Un impegno che von der Leyen ha rispettato anche dopo di lei, tenendo in ostaggio la rule of law fino ad aprile 2022.

L’ultimo episodio della solita storia vede il despota ungherese minacciare di bloccare il via libera del Consiglio europeo ai negoziati per l’Ucraina nell’Ue, oltre che a 17 miliardi di sussidi e 33 di prestiti per Kiev.

Il compromesso 

Alla vigilia del vertice, la Commissione Ue ha sbloccato dieci miliardi per l’Ungheria; una scelta per la quale alcuni eurodeputati, come il liberale Guy Verhofstadt, chiedono le dimissioni di von der Leyen, e altri, come il verde Daniel Freund, annunciano battaglia: «Von der Leyen sta pagando la più grande tangente nella storia dell’Ue all’autocrate e amico di Putin». Ma paiono voci nel deserto: già giorni fa, il presidente del Consiglio europeo si era fiondato a Budapest, e il presidente francese aveva voluto incontrare Orbán.

I negoziati con l’autocrate, sbocciati questo giovedì nel sì a Kiev, sono in lavorazione da tempo: che von der Leyen si preparasse a sganciar soldi all’Ungheria, era stato anticipato su Domani mesi fa. Le capitali sono così disponibili al compromesso non solo per Kiev, ma pure per i propri interessi cogenti. La Germania dai tempi di Merkel preferisce negoziare, con Orbán, per l’interdipendenza asimmetrica tra le economie dei due paesi (si legga: manifatture tedesche in Ungheria). La Francia di Macron si prepara a sostituirsi alla Russia nel piano di espansione nucleare ungherese; e anche lì, sono affari.

Così Orbán alza la posta, e mentre gli altri cedono, ostenta durezza; pure questa, storia già vista. Lunedì era a Washington dai repubblicani a discutere di come fermare gli aiuti a Kiev; ora non lascia, raddoppia: punta a sbloccare per sé altri fondi Ue. E gli aiuti a Kiev, invece? La sua linea è: fuori dal bilancio comune.

Il ruolo di Meloni

La notte prima che il Consiglio cominciasse, subito dopo l’incontro informale con Macron e Scholz, palazzo Chigi ha fatto sapere di stare lavorando a un incontro Meloni-Orbán. Era l’una passata.

Questo innesco mostra che è fondata la versione data fuori microfono dai meloniani più stretti: la premier fa valere un ruolo di «ponte» con Orbán; questo giovedì mattina lo ha incontrato da sola, pre-lavorando il negoziato prima che si tenesse l’incontro tra l’ungherese, Scholz, Macron, Michel e von der Leyen.

Meloni ha leve importanti per condizionare Orbán: una famiglia politica dopo il 2024 (che si tratti della sua o di quella di Salvini), e un aiuto a sbloccare altri fondi.

A cosa serve a lei, invece, poter vantare di imbrigliare Orbán? Che la assecondino nella sua propaganda sui migranti; sul patto di stabilità, far credere di aver tentato.

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