La nuova direttiva europea sulla trasparenza retributiva convince la maggioranza dei lettori, ma molti chiedono di andare oltre: conoscere la media degli stipendi è un primo passo, utile solo se apre a un vero cambiamento nei rapporti di potere in azienda
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Dal 2026 le aziende europee saranno obbligate a garantire più trasparenza retributiva. Secondo la nuova direttiva 970/2023 dell’Unione Europea, ogni dipendente avrà diritto a conoscere la retribuzione media, suddivisa per genere, di chi svolge il suo stesso ruolo. L’obiettivo primario è contrastare il fenomeno del gender pay gap, ovvero la differenza percentuale nella retribuzione media percepita a parità di mansione tra uomini e donne, per colmare il divario retributivo di genere.
Il Consiglio dell’Unione europea specifica che «in base alle nuove norme, le imprese dell'Ue saranno tenute a fornire informazioni sulle retribuzioni e a intervenire se il divario retributivo di genere supera il 5 per cento».
Non sarà possibile accedere allo stipendio dei singoli colleghi, ma si punta a smantellare il cosiddetto “segreto salariale”, che finora ha favorito disuguaglianze, soprattutto a danno delle donne. Secondo gli ultimi dati, per ora prestata, le donne guadagnano in media il 13 per cento in meno rispetto agli uomini.
Abbiamo chiesto a lettrici e lettori cosa ne pensano ed ecco cosa è emerso.
La grande maggioranza è favorevole
Alla domanda se sarebbero favorevoli a conoscere lo stipendio medio di chi svolge il loro stesso ruolo, l’88,2 per cento ha risposto sì, mentre un 11,8 per cento ha detto «dipende dai casi». Nessuno ha espresso contrarietà netta.
Molti vedono nella trasparenza salariale uno strumento di equità, specie in ambienti dove la situazione è attualmente opaca: «Conoscere gli stipendi medi è certamente utilissimo anche perché nell’azienda dove lavoro io è tutto molto opaco. Forse ci vorrebbe una maggiore trasparenza a prescindere», commenta un lettore.
Altri ritengono che si debba andare ancora oltre, auspicando la pubblicazione integrale dei salari a tutti i livelli: «Credo che siccome stiamo parlando di contratti tra due parti sociali dovrebbero essere in ogni azienda pubblicate le tabelle salariali e stipendiarie di ciascun membro a cominciare dall'amministratore delegato, passando per gli azionisti, fino ai dipendenti. Non vedo abuso di privacy: si consuma ingiustizia proprio con la salvaguardia di questa per questa esclusiva casistica».
Se potessero, in molti chiederebbero i dati
Oltre il 60 per cento chiederebbe volentieri al proprio datore di lavoro le informazioni sul salario medio. Il 23,5 per cento lo farebbe solo in caso di dubbi sulla parità salariale, mentre l’11,8 per cento preferirebbe non farlo affatto.
Il timore che l’iniziativa individuale possa risultare scomoda o portare conseguenze è emerso anche nei commenti, con chi sottolinea che una richiesta simile, se isolata, potrebbe alimentare tensioni: «Lasciare la trasparenza salariale alla scelta del singolo lavoratore rischia di renderlo vulnerabile, mettendolo in condizione di lavorare in un ambiente ancora più tossico».
Un modo per ridurre le disuguaglianze?
Più della metà dei lettori che hanno partecipato al sondaggio ritiene che la trasparenza sulle retribuzioni possa ridurre in modo significativo le disuguaglianze. Il 35,3 per cento è più cauto e parla di un impatto solo “parziale”. In pochi hanno espresso scetticismo.
Chi è favorevole sottolinea il legame tra la nuova norma europea e il superamento del gender pay gap: «Penso sia una norma importante soprattutto per superare il divario salariale di genere».
E c’è chi aggiunge: «Quando lavoravo, c’erano differenze di stipendio tra donne e uomini a parità di grado: ben venga questa riforma».
Non mancano però posizioni più critiche, che distinguono tra uguaglianza di base e riconoscimento del merito individuale: «Può essere corretto sapere gli stipendi, ma inseguire la parità salariale assoluta mina l’impegno. È giusto che chi lavora meglio sia pagato di più. L’importante sono i criteri».
Un tema ancora tabù in molte aziende
Nel 41,2 per cento dei casi, le persone dichiarano che nel loro ambiente di lavoro non si parla di stipendi. Solo una minoranza afferma che c’è trasparenza vera e propria, mentre il restante 35,3 per cento dice che se ne parla solo tra colleghi di fiducia.
Il dato conferma che, ad oggi, il salario resta un argomento spesso evitato, e che la riforma europea intercetta una reale esigenza di cambiamento.
I sondaggi precedenti
Nelle ultime settimane abbiamo chiesto ai nostri lettori e lettrici di confrontarsi su alcuni temi centrali del dibattito pubblico.
Abbiamo discusso della proposta di Forza Italia per introdurre lo ius scholae: per la maggior parte dei partecipanti si tratta di un compromesso minimo, accettabile solo come primo passo verso una riforma più ampia e inclusiva del diritto di cittadinanza.
Poi ci siamo occupati della proposta di Marine Le Pen di garantire condizionatori a chi non può permetterseli, che ha riacceso il dibattito anche in Italia: la maggioranza dei lettori l’ha considerata una toppa che rischia di aggravare il problema climatico.
Infine, abbiamo affrontato il tema del divieto di smartphone alle superiori, previsto dalla nuova circolare del ministro Giuseppe Valditara: in molti si sono detti favorevoli, ma con diverse riserve sull’efficacia e sull’applicazione concreta della misura.
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