In chiusura del festival Tempi radicali a Modena, il 2 aprile, è stato ospite di Domani anche il cardinale Matteo Maria Zuppi. Un'importante occasione di dialogo, a cui bisogna dare atto che il presidente della Cei si è prestato volentieri, pur potendo immaginare che sarebbe andato incontro anche a domande scomode.

Intervistato dal direttore Stefano Feltri, si è infatti mostrato sicuro e a suo agio sui temi di cui è abituato a parlare, dalla sinodalità alle periferie esistenziali care a papa Francesco fino addirittura a confrontarsi sui diritti lgbtq e il fine vita, ma ha cambiato passo ed è apparso sulla difensiva appena si è affrontato il tema degli abusi clericali.

Ha fatto però in proposito affermazioni molto interessanti: proviamo quindi a riprenderle punto per punto.

Il nodo risarcimenti

Prima di tutto, eludendo la domanda esplicita sull'avvio di un'indagine indipendente anche in Italia, Zuppi ha cominciato a criticare l'inchiesta che Domani porta avanti da ormai un anno sulla violenza nella Chiesa cattolica, sostenendo che sono state pubblicate cose non vere: «non abbiamo mai cercato di comprare qualcuno, come avete scritto», ha detto il presidente della Cei.

In almeno due casi, però, abbiamo documentato che sono stati offerti 25mila euro alle vittime in cambio del silenzio sulla trattativa economica: è successo in provincia di Alessandria a Massimiliano Gamalero, vittima di don Carlo Bottero, reo confesso, e ad Antonio Messina, abusato a Enna da don Giuseppe Rugolo (oggi sotto processo per violenza sessuale su minori).

Entrambi hanno ricevuto una proposta di “risarcimento” da parte della Chiesa: nel caso di Messina dal vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana, come si evince dalle intercettazioni agli atti, e in quello di Gamalero è arrivato addirittura un bonifico da parte del prete con la mediazione del vescovo di Acqui Luigi Testore.

Sappiamo poi che altri casi di trattativa economica “privata” fra la Chiesa e le vittime sono andati a buon fine.

Non solo Chiesa 

«I primi che hanno consapevolezza e interesse a contrastare gli abusi siamo noi», ha poi sottolineato Zuppi, aggiungendo però che, «per evitare che a qualcuno venga il dubbio che ce l'avete con noi», Domani dovrebbe fare inchieste anche sulla famiglia e sulla scuola, responsabili, secondo il cardinale, del «95 per cento degli abusi che ci sono in Italia».

In primo luogo, sorprende questa percentuale così precisa: qual è la fonte di Zuppi, visto che non ci sono dati pubblici?

Nel merito dell'affermazione, bisogna poi dire che la Chiesa non può in alcun modo essere messa sullo stesso piano della scuola e della famiglia: non solo per la levatura morale e il ruolo sociale che l'istituzione religiosa rappresenta e vanta, ma perché la gerarchia ecclesiastica ha fino ad oggi considerato l'abuso sessuale, anche sui minori, come un peccato che riguarda colui che lo commette, e non un reato.

Senza contare che il pedofilo nella Chiesa ha finora potuto contare su un'organizzazione che in molti casi lo ha protetto con l'omertà e lo spostamento in altra diocesi, in certi casi agevolandone la fuga con vari espedienti, come è successo a don Silverio Mura, prete napoletano ritrovato in provincia di Pavia con il nome di don Saverio Aversano.

Il rigore estremo

Molto ci sarebbe poi da dire sul «rigore estremo» con cui papa Benedetto XVI e papa Francesco hanno affrontato il problema. Papa Francesco, in questi dieci anni sugli abusi ha detto molto ma fatto poco e finora non è riuscito a scardinare quel sistema di potere che rende la violenza clericale endemica.

Nonostante papa Bergoglio abbia tolto il segreto pontificio sulle cause degli abusi (invece ribadito da Benedetto XVI nel 2001), di fatto vige ancora la massima riservatezza su decreti, testimonianze e carte processuali.

I prossimi dati

Il presidente della Cei ha poi annuciato che i nuovi report sugli abusi nella Chiesa saranno pronti il prossimo novembre (ricordiamo che il 17 novembre 2022 è stato presentato il primo rapporto della Cei, che prendeva in esame l'attività dei Servizi diocesani e le segnalazioni arrivate ai centri di ascolto delle diocesi nel biennio 2020-2021) e riguarderanno «non solo i numeri ma anche il tipo di reati commessi negli ultimi vent'anni».

Zuppi ha spiegato che la ricerca si limita a vent'anni (e non i tradizionali settanta, come la maggior parte delle indagini commissionate negli altri paesi) «perché di questo periodo abbiamo i dati su cui lavorare e evitiamo il rischio di avere soltanto delle proiezioni».

Il cardinale ha omesso di esplicitare che anche questo report, come il precedente, sarà redatto non da una commissione indipendente ma da un'istituzione legata alla Chiesa, che non garantisce la necessaria terzietà.

Senza contare che i dati ecclesiastici sono parziali (la Cei ha parlato di 613 fascicoli depositati al Dicastero per la dottrina della fede) perché non tengono conto di chi non si è rivolto all'autorità ecclesiastica per denunciare le violenze.

Inoltre, limitare l'indagine a vent'anni esclude a priori le vittime emerse in precedenza e non tiene proprio conto di quanti non hanno ancora maturato la consapevolezza di aver subito un abuso: è noto infatti che molti hanno bisogno anche di trenta o quarant'anni per elaborare il trauma subito.

Denunciare o no?

Zuppi è poi entrato nel cuore del problema, sostenendo che le linee guida della Chiesa sono severissime e che i casi di abuso vanno denunciati alle autorità dello Stato.

«Il problema però – ha poi precisato – è che a volte le persone non vogliono rivolgersi alla giustizia penale. A me personalmente è capitato due volte: due persone che mi hanno fatto segnalazioni ma non volevano andare al commissariato», sottolineando che in questi casi «vengono fatte firmare delle dichiarazioni alle vittime», che sollevino dalla responsabilità la Chiesa.

Incalzato dal direttore, che gli chiedeva se a quel punto è il vescovo che fa la denuncia all'autorità dello Stato, Zuppi ha ribadito: «no, se la persona non vuole, no. Esiste però una giustizia ecclesiastica che funziona benissimo e non bisogna dire che è connivente (con gli abusatori, ndr)».

Questo è un passaggio cruciale, perché dalle parole del presidente della Cei si evince che, nonostante l'obbligo morale sancito dal motu proprio papale Vos Estis Lux Mundi, che esorta il clero alla trasparenza e alla denuncia dei responsabili all'autorità civile, i vescovi continuano a rivolgersi solo ai tribunali interni.

Sul fatto che questi ultimi funzionino bene, c'è solo la parola del cardinale, visto che gli esiti delle indagini ecclesiastiche non vengono rese note nella maggior parte dei casi nemmeno alle vittime.

Su come sono condotte queste indagini, invece, da quel che trapela dai documenti a nostra disposizione c'è poco da stare allegri: nel già citato caso di don Rugolo, per esempio, monsignor Gisana viene ripreso durante la fase delle indagini preliminari proprio sul modo in cui ha condotto l'investigatio previa, che viene definita «monca» dal pm che lo interroga.

Il vescovo, infatti, non solo non si era preoccupato di convocare diversi testimoni, ma nemmeno aveva sentito il prete accusato.

Le vittime dimenticate

Interpellato infine sul mancato coinvolgimento delle vittime nel processo di indagine sugli abusi, il cardinale Zuppi ha sostenuto che, invece, alcune di loro sono state ascoltate e ha citato un'udienza avvenuta al Consiglio permanente della Cei.

Decisamente poco, se si aggiunge che Francesco Zanardi, presidente della Rete L'Abuso, ricevuto due volte in udienza privata proprio da Zuppi, ha definito gli incontri «deludenti» e l'atteggiamento del cardinale «autoritario».

La Cei non si è poi nemmeno data la pena di rispondere alle lettere del coordinamento Italy Church Too, nato nel 2022 proprio per dare voce ai sopravvissuti alla violenza clericale.

Anche a Modena, non una parola è venuta da Zuppi sul dolore delle vittime e sulla necessità che ricevano un risarcimento (trasparente) per quanto hanno subito, come accade invece in Francia e in Germania.

«E poi c'è sempre la giustizia ecclesiastica e Roma: un po' di meccanismi di certezza del diritto per la vittima ci sono», ha concluso Zuppi, riferendosi ovviamente al ruolo di garante del papa.

Purtroppo, pensando alla vicenda complessa e tutt'altro che chiara di Rupnik, e del ruolo per nulla trasparente avuto da Bergoglio nella scomunica del gesuita accusato di abusi su diverse suore, sorgono molti dubbi sulla «certezza del diritto» garantita dalla Santa Sede.

Roma giudica, in effetti, come ha detto il presidente dei vescovi, ma a noi ancora rimane da capire in che modo.

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