Infine, in chiusura di Atreju, ha preso la parola la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Dopo una settimana di stand pieni e di dibattiti all’insegna del nazionalpopolare con sportivi e star televisive, davanti ai militanti del suo partito, la premier si è mostrata sorridente: «Vedervi così numerosi e orgogliosi mi ripaga di ogni giorno impossibile, di ogni notte in cui non dormo abbastanza di ogni fine settimana passato a lavorare».

La retorica della premier è quella di sempre, in un’ideale iperbole che è cominciata con quella definizione di underdog usata alla Camera nel suo discorso programmatico per la fiducia del 2022. In quasi un’ora di intervento, ha attaccato in modo martellante il Pd, poi i sindacati che hanno organizzato gli scioperi e in particolare la Cgil di Maurizio Landini.

Addirittura, la parola più pronunciata è stata «sinistra», una sorta di fantasma evocato come opposto delle posizioni della premier, ma anche come causa di tutti i mali del paese prima che al governo arrivasse lei. La linea è quella rodata – soprattutto davanti alla platea casalinga – di magnificare i successi internazionali ottenuti nonostante lo scetticismo degli osservatori stranieri e di raccontare un’Italia in costante crescita e finalmente sulla strada giusta dopo anni di disastro.

«Siamo nati per qualcosa di grande, noi non racconteremo la storia, noi la scriveremo» è stata la sua conclusione, in un crescendo enfatico imperniato sul mito della comunità di destino sottovalutata dall’esterno e che ora sta sconfiggendo le forze avverse.

L’affondo contro Schlein

Al netto degli espedienti retorici di cui la premier è maestra, di politico nel suo intervento c’è stato soprattutto l’attacco alle opposizioni. «Questo è un luogo dove ci si confronta sui contenuti, e chi scappa dimostra non avere quei contenuti», ha detto Meloni con un evidente riferimento alla segretaria del Pd, Elly Schlein, che ha rifiutato l’invito e che Meloni ha ringraziato comunque perché «con il suo nannimorettismo ha comunque fatto parlare di noi. La cosa divertente è che il presunto Campo largo lo abbiamo riunito noi ad Atreju e quella che dovrebbe federarli non si è presentata».

L’ossessione della premier appare proprio il centrosinistra, che rimane cantiere sempre aperto ma con una certezza in più: con l’attuale legge elettorale la partita politica è aperta. Dunque, dietro il dileggio, forse proprio è quell’unità possibile che la premier teme, scegliendo la strada del seminare discordia: «Noi siamo alleati e siamo amici, loro no. Gli ho proposto un confronto due contro uno e mi hanno detto di no. Ma non perché non volessero confrontarsi con me, ma perché Schlein e Conte non volevano confrontarsi tra di loro. E vorrebbero governare».

Il centrodestra

Per il centrodestra, invece, Meloni ha evocato l’immagine della «comunità di destino», definendo l’alleanza per negazioni: «Non siamo un incidente della storia, non siamo una somma di divisioni». Il risultato da rivendicare è quello delle regionali: 3 a 3, invece che 5 a 1 evocato dall’onnipresente sinistra.

Il riferimento alla coalizione di governo, però, finisce qui. Il noi contro di loro costantemente evocato, infatti, ha la premier al centro con il suo progetto politico: «Noi dobbiamo essere credibili per i mercati internazionali, ma ancora di più per i mercati rionali. Dobbiamo avere credibilità per gli italiani» che hanno pagato «miliardi di euro per i giochi di palazzo della sinistra», invece oggi il paese cresce grazie alla stabilità del governo. Con un vezzo: elencare i titoli dei giornali stranieri su di lei, a marcare il consenso del consesso internazionale.

In una alternanza di attacchi alla sinistra e dichiarazioni di intenti, Meloni ha rivendicato gli impegni (per ora futuri) sul piano casa e taglio dell’Irpef: «Non accettiamo chi fa il comunista col ceto medio e il turbocapitalista coi potenti. Il Pd si indigna per la vendita di Gedi, ma quando chiudevano gli stabilimenti di Stellantis tutti muti».

Il terreno ormai preferito della premier è però quello internazionale, su cui ha ribadito i suoi punti fermi: sì al riarmo europeo perché «la libertà ha un prezzo e noi abbiamo sempre preferito una costosa libertà a una costosissima ma apparentemente comoda servitù»; ruolo forte nel Mediterraneo e in Africa col piano Mattei e infine vicinanza al popolo ucraino. In questo caso, però, acutamente senza evocare gli aiuti in difesa con il decreto Armi che la Lega si rifiuta di votare.

Quanto alla politica interna, i cavalli di battaglia sono quelli di sempre: la crescita dei posti di lavoro e i bonus per la famiglia; lotta all’immigrazione e sostegno al modello Italia-Albania, che diventa utile gancio per attaccare le «sentenze ideologiche» dei giudici «politicizzati» e tenere l’altro punto di giornata: il sì al referendum sulla giustizia che non sarà però u quesito sul governo, che «rimane in carica fino alla fine della legislatura» e parallelamente la rotta per l’approvazione del premierato. Dal comizio di Meloni, tuttavia, emergono per contrarietà i temi astutamente non toccati: la finanziaria dalle risorse scarse; la corsa contro il tempo per rispettare i tempi del Pnrr; i contrasti della maggioranza in politica estera e di difesa; la volontà non condivisa di riscrivere la legge elettorale. Atreju, però, è il luogo identitario della galvanizzazione, dove evocare lo spauracchio dei comunisti ancora strappa l’applauso.

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