Sotto il cielo della politica italiana non c’è mai nulla di definitivo e c’è sempre qualcosa di esagerato. Ne è riprova il voto di domenica. Il risultato dei ballottaggi assegna la vittoria al centrosinistra, a partire dall’espugnazione di Verona. Mentre due settimane fa si sentiva l’eco delle campane a festa del centrodestra che aveva a sua volta espugnato la bianca Palermo e confermato la rossa Genova.

Un pendolarismo quasi canonico che consente a tutti di celebrare metà di un risultato e induce tutti a battersi il petto per l’altra metà. In attesa che magari le parti si rovescino. Si assomma così una quantità di dati, episodi, cronache e circostanze che forse andrebbe letta su di uno sfondo più ampio.

Movimento continuo

La realtà è che in tutti questi anni abbiamo sperimentato tutto quello che c’era da sperimentare. Il declino del professionismo politico e poi quella sorta di blando rimpianto che sembra rimetterlo all’onore del mondo (a patto, beninteso, che sia postumo). Il trionfo del populismo, e ora la sua triste e meritata discesa agli inferi. La celebrazione del valore supremo dei tecnici (Mario Monti, Mario Draghi), e la loro inesorabile discesa dalle vette della loro insindacabilità. Insomma, un continuo su e giù che promette di celebrare la fine di avventure che pure erano iniziate sotto i migliori auspici. Quasi che solo il movimento – continuo, frenetico, ossessivo – possa dare un po’ di quiete alla nostra collettiva anima politica.

L’unica certezza che se ne può ricavare è che il momentaneo vincitore di oggi è fin da adesso il miglior candidato alla sconfitta di domani. Alla sconfitta, e perfino al vituperio. Come a garantirci che nessuno mai si insedierà nel cuore del paese per un periodo troppo lungo. Salvo magari fare un bel po’ di guasti prima di scendere dal piedistallo, come ci è capitato di vedere lungo l’arco di questa legislatura pazza e strampalata.

Le tre crisi

Tutto questo non è un capriccio, come può sembrare. È l’effetto di una crisi più ampia. O meglio, di tre crisi che si innestano una nell’altra. C’è la crisi della politica, su cui professionisti e dilettanti si arrovellano inutilmente fin dai tempi del crollo della prima repubblica. C’è la crisi del sistema, che include le istituzioni, l’economia, la scuola, i media, un po’ tutto quello che concorre al destino di un paese e che però non dà più vita non dirò a un disegno ma neppure a un ingranaggio.

E c’è la crisi della civiltà, come avrebbe scritto Johan Huizinga. Cioè una crisi culturale, spirituale, di idee e di costumi, che svela il vuoto dei grandi pensieri e l’affollamento delle piccolezze, dei dettagli, delle futilità. Tre crisi una dentro l’altra, al modo delle matrioske russe.

La campagna delle amministrative è la più piccola di tutte queste bamboline. Possiamo dedicarle un po’ di attenzione, ma dobbiamo considerare che ci sono bambole più grandi che la contengono e un po’ la svelano, un po’ la nascondono. Il fatto è che l’Italia al punto in cui siamo – il paese, la politica, i cittadini – avrebbe bisogno di una risposta che fosse capace di misurarsi con la densità della sua crisi. O meglio, delle sue crisi.

Nessuna delle soluzioni di scuola a cui ci si tende ad affidare in queste circostanze sembra poterci portare fuori dai guai. Le professionalità politiche di più antico lignaggio non torneranno. Esse vengono evocate e apprezzate e perfino rimpiante, ma solo a condizione che restino poi lì, come quadri appesi alle pareti e non come figure in carne e ossa che reclamano i loro diritti nel salotto buono.

I populisti, o quel che resta di loro, sono diventati perfino odiosi a sé stessi, e la loro incapacità di maturare e di migliorare li rende ormai l’ombra di quello che erano appena qualche mese fa, quando ancora avevano in mano i destini del paese e il consenso della “ggente”. Infine, i tecnocrati – anche quelli che hanno fatto al meglio i compiti che erano stati loro assegnati – non appena sembrano rivelare anche solo l’ombra di un’ambizione di guida politica vengono sospinti in malo modo sul ciglio del burrone.

Il gioco dell’oca

Potrà anche capitare che avvenga una delle cose che il nostro collettivo calendario politico sembra aver messo in agenda. E cioè che il centrodestra vinca le elezioni (modello Palermo). O che le vinca il centrosinistra (modello Verona). O che, non vincendole nessuno dei due, si vada in cerca di un altro Draghi – magari lo stesso – che riempia il vuoto lasciato dalle mezze vittorie e dalle intere inadeguatezze degli uni e degli altri. Ma sarebbe appunto come tornare alla casella di partenza di un gioco dell’oca che non finisce mai. E che a furia di venire intrapreso e mai condotto a un esito lascia dietro di sé una lunga, interminabile scia di insoddisfazione.

Il punto è che nessuna delle tre strade che abbiamo percorso, o cercato di percorrere, in tutti questi anni porta da qualche parte. Almeno, non da sola. Non la vecchia, gloriosa e meritoria rappresentanza, privata ormai della sapienza (e pazienza) dei suoi artigiani di una volta. Non la tecnocrazia, priva di una sufficiente base di consenso, e forse anche di quel tanto di mestiere politico che servirebbe a determinarne il primato. E tanto meno l’armata Brancaleone del populismo, messo alla prova e rivelatosi un danno per il paese e a questo punto anche per se stesso.

Cambiare registro

Forse allora sarebbe il caso di cambiare registro. E magari di considerare che nel registro a cui ci siamo applicati fin qui c’è un difetto di sistema. Un baco. Un granello di polvere che blocca l’ingranaggio, anche quello apparentemente più poderoso.

Quel granello di polvere, alla maggior parte di noi, appare il nostro avversario – quale che sia l’avversario che ci scegliamo. E invece la difficoltà risiede altrove, e il tema è un altro. Non è far vincere ai buoni la sfida contro i cattivi. Né far vincere ai nuovi la sfida contro i vecchi (o magari viceversa). Il tema è riunificare il paese intorno a nuove regole perché di lì in poi il gioco possa essere migliore di quello che pratichiamo tutti – con alterne e assai periclitanti fortune.

Detto in altre parole, dovremmo essere capaci di celebrare un rito di unità del paese e della politica intorno al ripensamento delle sue stesse regole. Impresa che riuscì negli anni Quaranta, tra partiti che erano ben più lontani (e pugnaci) di quanto non siano oggi, per dire, Enrico Letta e Giorgia Meloni. Si tratterebbe allora di vestire i nostri avversari di panni più umani e meno bellicosi. E di riconoscere che la democrazia è un gioco di alternanze e di ricambi, e non già la metafora di una guerra civile o anche solo di una contesa di wrestling.

Questo non significa cancellare le differenze, ci mancherebbe. Significa però ripensarle in un contesto diverso. Riabituando le forze politiche – quale che sia il loro colore – a ragionare in termini di sistema. Cioè in termini globali e non troppo particolari. Cosa che peraltro anche gli eventi che capitano al di là dei nostri confini renderebbe altamente meritoria.

Si tratterebbe di un atto di generosità verso la democrazia, che è un regime che vive di conflitti ben regolati. E anche verso i propri elettori, ai quali non si può continuare a raccontare che il bene del paese ci sfugge sempre solo perché il nemico che ci siamo scelti ci impedisce con la sua protervia, o magari con la sua stessa esistenza, di arrivare a una qualche destinazione.

Nel suo piccolo, e nella piccolezza dei suoi numeri, il voto amministrativo ci ricorda che le tre crisi che stiamo attraversando sono innanzitutto il disvelarsi di una gigantesca crisi di fiducia. Quella crisi, volta a volta, colpisce un po’ tutti e finisce col dar vita a primati che svaniscono alla prima occasione e si capovolgono facilmente, così che la vittoria del giorno prima diventa l’incubazione della sconfitta del giorno dopo. Il primo che mostrerà di capirlo avrà reso un servizio alla politica. E forse perfino a sé stesso.

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