L’ultimo a esplicitare il proprio malumore è stato il deputato Claudio Borghi, leghista di rito “no green pass”. Dopo essere sceso in piazza contro la “dittatura sanitaria”, ha incassato il decreto approvato dal governo e ammesso che questa, per lui, è una sconfitta. Per lui ma anche per il suo leader, Matteo Salvini, che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, ha dovuto ammorbidire di molto la sua posizione sul tema. E anche se, intervistato dal Corriere della Sera, si dichiara soddisfatto «rispetto alle ipotesi di partenza», è chiaro che l’ultimo atto del governo prima della pausa estiva piace più alla Lega di governo che a quella di piazza. Il fatto che Borghi se ne lamenti pubblicamente non è di per sé un terremoto, ma è un piccolo segnale che qualcosa comincia a non funzionare.

Qualcosa è cambiato

La dialettica interna a una forza politica è da sempre considerata un segno di vitalità democratica. In alcuni partiti, vedi il Pd, è diventata quasi una patologia. In altri, vedi la Lega, è sempre stata mal tollerata. Mettere pubblicamente in discussione Salvini e la sua leadership era considerato, oltre che un modo sicuro per porre fine alla propria carriera politica, una pericolosa deriva rispetto alla narrazione di un partito compatto attorno al proprio Capitano.

Ultimamente, però, qualche voce dissenziente ha cominciato a farsi sentire. Il presidente del Veneto, Luca Zaia, ad esempio, ha criticato duramente i leghisti anti green pass verso i quali Salvini ha mantenuto un atteggiamento di ambigua connivenza. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti non ha smentito un retroscena del Foglio che lo descriveva insofferente verso la linea del leader e il suo progetto di Lega. Poi si è incontrato con Salvini, quasi a voler mostrare platealmente una ritrovata armonia.

Né Giorgetti né Zaia né gli altri leghisti che mostrano insofferenza verso le mosse del leader al momento hanno la forza di detronizzarlo. E forse neanche lo vogliono. Perché se fin qui Salvini ha perso consensi nei sondaggi subendo la rimonta e il sorpasso di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, d’ora in poi le cose possono solo peggiorare.

Amministrative e non solo

Il primo nodo da sciogliere è proprio quello dell’equilibrio interno alla coalizione di centrodestra. Salvini puntava molto sul partito unico con Forza Italia. Un modo per isolare Meloni ma anche per raccogliere ciò che resta dell’eredità di Silvio Berlusconi. Il progetto non sembra decollare e il Cavaliere in settimana ha ospitato nella sua villa in Sardegna la leader di FdI per fornirle rassicurazioni sulla tenuta dell’alleanza.

Meloni punta tutto sulle prossime amministrative per rafforzare il proprio consenso. Se infatti lo sconosciuto Enrico Michetti dovesse vincere a Roma (cosa possibile) mentre l’altrettanto sconosciuto Luca Bernardo dovesse perdere a Milano (cosa probabile), per Salvini sarebbe un colpo. In ogni caso la sua leadership rischia di uscire ridimensionata se le sfide elettorali andranno peggio di come previsto.

C’è poi il capitolo governo-Quirinale. Sul tema il leader della Lega appare più che confuso. Ieri, in poche ore, ha prima detto che il suo candidato per il Colle è Silvio Berlusconi («l’ho sentito in gran forma»), che per ora Mario Draghi deve rimanere a palazzo Chigi e che se mai il premier si candidasse alla presidenza della Repubblica «faremo le nostre valutazioni». Parole in libertà che tradiscono una certezza: comunque vada, Salvini sa che non sarà lui a dare le carte nella partita per la successione di Sergio Mattarella. Potrà provare a intestarsi una vittoria di facciata (un po’ come fatto con il green pass), ma l’unica cosa che può fare è cercare di non perdere nessuno del suo pacchetto di voti.

Insomma il Salvini di oggi non è che un lontano parente del Salvini spavaldo che abbiamo imparato a conoscere. Anche eventuali elezioni anticipate, a ben vedere, potrebbero trasformarsi in un boomerang. L’impressione è che, con lui fuori dai giochi, il centrodestra già da tempo avrebbe assunto un’altra fisionomia. Ma non c’è fretta. I suoi preferiscono lasciarlo rosolare a fuoco lento.

Draghi tutto sommato ha solo da guadagnare da un leader che dopo aver sbraitato un po’ sostiene con forza ogni iniziativa del governo. Non a caso proprio ieri il premier gli ha assestato un altro colpo dicendo di condividere il principio alla base del reddito di cittadinanza. Esattamente quello che Salvini contesta.

Infine c’è il Pd che, con il Capitano in campo può continuare a mostrarsi come il partito che difende l’Italia dalla deriva sovranista degli amici di Viktor Orbán. Insomma, un Salvini così conviene a tutti. Tranne che a Salvini.

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