Il piano firmato dal presidente americano prevede la deportazione di 9.000 migranti irregolari, compresi due connazionali, verso la base militare cubana: un lager fuori dal diritto internazionale che Obama aveva promesso di chiudere. Per Tajani «il nostro paese è pronto a riprendersi» i suoi concittadini, ma la vicenda mette in crisi l’intero impianto simbolico della destra. Quando il "clandestino" ha passaporto italiano, la coerenza diventa silenzio
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha provato a spegnere l’incendio con una dichiarazione netta: «Nessun italiano sarà trasferito a Guantanamo, siamo pronti a rimpatriarli». La precisazione è arrivata dopo ore di crescente imbarazzo per l’esposizione mediatica di un piano firmato Donald Trump che prevederebbe la deportazione di 9.000 migranti irregolari — tra cui centinaia di cittadini europei, italiani compresi — verso la base militare cubana.
La notizia, pubblicata dal Washington Post, è stata confermata da più fonti e rilanciata anche dall’opposizione italiana, che ha chiesto al ministro di riferire in parlamento.
Prima gli italiani, ma dopo Trump
Due cittadini italiani risultano effettivamente nella lista dei soggetti fermati. Uno è stato già espulso, l’altro è in via di rimpatrio. Tajani ha confermato che la questione sarà affrontata «giovedì in una telefonata con il senatore Marco Rubio». Matteo Salvini ha commentato: «Trump fa il suo mestiere: garantisce la sicurezza del suo paese». Un’affermazione che, pronunciata da chi ha fatto della sovranità nazionale una bandiera, appare come una rassegnazione silenziosa all’iniziativa dell’alleato.
Per tutta la giornata si sono moltiplicate le voci critiche. Laura Boldrini (Pd) ha parlato di «deportazioni da regime autocratico». Angelo Bonelli (Avs) ha chiesto conto a Salvini: «Non sapevo che gli italiani fossero una minaccia per gli Stati Uniti». Per Ivan Scalfarotto (Italia viva) «è intollerabile che Tajani comunichi tramite i media e non in aula». Persino l’Unione europea, interpellata, ha preferito non commentare.
Il governo Meloni si trova così stretto tra due vincoli. Da un lato, l’alleanza ideologica con Donald Trump. Dall’altro, l’imbarazzo di una destra che ha costruito la propria narrazione politica sulla lotta ai «clandestini», salvo trovarsi ora a dover spiegare perché cittadini italiani possano finire deportati in una base militare senza processo. Il caso esplode nel cuore di un esecutivo che ha rilanciato lo slogan «prima gli italiani» e ora tace e minimizza. Prima gli italiani, ma dopo Trump, insomma.
La promessa tradita di Obama
La destinazione al centro della bufera è Guantanamo Bay. Una base americana in territorio cubano, formalmente sotto controllo statunitense dal 1903. Dopo l’11 settembre è stata trasformata in un centro di detenzione extragiudiziale. Qui sono stati rinchiusi, senza accusa né processo, oltre 700 individui classificati come “combattenti nemici illegali”. Una definizione creata ad hoc per eludere le tutele previste dalla Convenzione di Ginevra e dalla Costituzione americana.
Negli anni sono emersi documenti, sentenze e testimonianze che hanno svelato un sistema basato sulla detenzione arbitraria, la tortura, l’uso sistematico di tecniche coercitive e il coinvolgimento di personale medico nelle violazioni. La Corte suprema ha più volte dichiarato l’illegittimità del sistema, ma la struttura non è mai stata smantellata. Guantanamo è rimasta in funzione, al di là dei governi e dei buoni propositi.
Barack Obama aveva promesso di chiuderla «entro un anno» già durante la campagna presidenziale del 2008. A gennaio 2009 firmò un ordine esecutivo per la chiusura del campo, ma nel 2010 il Congresso bloccò i fondi per il trasferimento dei detenuti. Il risultato: nel 2025 Guantanamo è ancora attiva, con 30 prigionieri, e pronta — se necessario — a riaprire le sue gabbie.
La farsa della detenzione temporanea
Secondo quanto trapelato, la giustificazione formale del Dipartimento di stato è che «Guantanamo non è la destinazione finale, ma solo una tappa prima del rimpatrio». Parole che suonano familiari a chi ricorda la retorica della «detenzione temporanea» di inizio anni Duemila, rivelatasi poi una pratica sistemica e protratta per decenni.
Da Palazzo Chigi nessun commento. Se ne occupa in solitaria il ministro Tajani, che per tutto il giorno ha ripetuto di non avere ricevuto alcuna comunicazione ufficiale dagli Stati Uniti garantendo che «l’Italia è pronta a riprendersi» i suoi concittadini diventati clandestini.
Nella burocrazia diplomatica, tuttavia, le garanzie formali contano poco. Il fatto che la Casa Bianca abbia smentito la notizia parlando di «fake news» non chiarisce se e quanti migranti siano già in viaggio verso la base. Anche perché, come riportato dal Washington Post, il governo Usa non aveva intenzione di avvisare gli alleati.
La vicenda mette in crisi l’intero impianto simbolico della destra al governo. Quando il "clandestino" ha passaporto italiano, la coerenza diventa silenzio. E Guantanamo, che avrebbe dovuto essere un errore da non ripetere, viene oggi normalizzata come opzione logistica per la gestione dei migranti.
Il contrappasso è completo: Guantanamo sta a Trump come l’Albania a Giorgia Meloni. Solo che dall’altra parte dell’oceano quelli sporchi e cattivi siamo noi.
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