«La conversione del decreto Infrastrutture conferma quello che abbiamo sempre ripetuto durante i lavori della legge Zan, e cioè che l’identità di genere è un concetto consolidato nel nostro ordinamento giuridico, non un concetto che il testo antidiscriminazioni voleva introdurre ex novo. Compare già nelle nostre leggi, in numerose sentenze della corte Costituzionale e in altrettante della corte di Cassazione».

Il giurista Angelo Schillaci, docente alla Sapienza ed esperto di questioni Lgbt, spiega da un punto di vista rigorosamente tecnico lo strano caso accaduto qualche giorno fa al Senato.

L’aula che il 27 ottobre scorso ha fermato a voto segreto l’iter della legge Zan, meno di dieci giorni dopo ha approvato con voto di fiducia un testo che conteneva la stessa definizione contestata dalle destre. Stavolta a opporsi è solo Fratelli d’Italia. Non la Lega e Forza Italia, che pure nel dibattito sull’omofobia avevano fatto grandi numeri contro, e neanche Italia viva.

Ed è proprio fra i renziani che si registra il testacoda più bizzarro. Il testo in questione è il decreto infrastrutture, che deve essere convertito in legge. Si parla di autostrade, di pedaggi.

Ma anche di pubblicità sessista grazie a un emendamento che alla camera viene proposto dalla deputata dem Alessia Rotta e dalla renzianissima collega Raffaella Paita.

Dice: «È vietata sulle strade e sui veicoli qualsiasi forma di pubblicità il cui contenuto proponga messaggi sessisti o violenti o stereotipi di genere offensivi o messaggi lesivi del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici, del credo religioso o dell’appartenenza etnica oppure discriminatori con riferimento all’orientamento sessuale, all’identità di genere o alle abilità fisiche e psichiche».

Una questione lessicale

Cecilia Fabiano/ LaPresse

La definizione «identità di genere», ampiamente presente nella letteratura giuridica italiana, è però stata l’oggetto del contendere sulla legge Zan. E dire che a introdurla nel testo era stata una richiesta della ministra della Famiglia Elena Bonetti, di Iv, e della responsabile giustizia di quello stesso partito Lucia Annibali.

Così l’articolo 1, quello delle “definizioni”, approvato a Montecitorio nel novembre del 2020 diceva che nel testo «per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico»; «per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso»; «per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi»; «per identità di genere» eccoci al punto «si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».

Poi però cambia il governo e al senato la musica renziana cambia. La vecchia maggioranza giallorossa (Pd, M5s e Leu) conduce una battaglia per portare a casa il testo così com’è e invece Matteo Renzi – siamo a luglio del 2021 – dirama l’ordine ai suoi senatori di cambiare verso. E di (fingere di) trattare con la Lega.

Via dunque, tra gli altri, l’articolo 1, pazienza che lo abbia voluto proprio Iv, via l’identità di genere come chiedono alcune femministe e soprattutto Salvini, Forza Italia e Fratelli d’Italia. La legge, come noto, viene alla fine impallinata a voto segreto. I franchi tiratori restano ignoti. Il Pd accusa Iv di tradimento, e nessuno di Iv si preoccupa di togliersi di dosso il sospetto di aver votato per abbattere il testo.

Passa poco più di una settimana e nella stessa aula arriva un altro testo. Che contiene la definizione «identità di genere», stavolta si vieta la discriminazione nelle pubblicità per strada.

L’ha proposta Iv, con il Pd, e Lega e Forza Italia la votano senza preconizzare la fine del mondo, come era successo nel ddl Zan. Il fatto dimostra che l’«identità di genere» non è stato il motivo per cui la legge è saltata, cosa che Renzi&Co ripetono ad libitum.

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