Cronaca dei tre anni in cui il Parlamento ha provato a dare l’Italia una legge contro le discriminazioni di genere e di orientamento sessuale: senza riuscirci
Il disegno di legge Zan, che amplia la legge contro le discriminazioni inserendo anche quelle per sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità, è stato bloccato ieri al Senato grazie a un voto favorevole al «non passaggio all’esame degli articoli».
Ora, per almeno sei mesi, la legge non potrà essere ripresentata al Senato e, se lo sarà, dovrà avere un testo diverso. Molti considerano l’episodio di ieri la conclusione definitiva del percorso di questa legge, iniziato nel 2018 e passato attraverso numerose fasi difficili.
A votare contro è stato tutto il centrodestra compatto, ma anche Italia Viva, il partito di Matteo Renzi, ha avuto un ruolo importante nel fermare la legge. In questi giorni intanto, proseguono le accuse reciproche tra il partito di Renzi e il Pd su chi porti le maggiori responsabilità per la sconfitta.
Ecco la storia completa di questo provvedimento che è stato così a lungo centrale nelle vicende politiche degli ultimi anni.
Le circostanze
L’Italia è uno dei pochi paesi dell’Europa occidentale a non avere una legge che punisca esplicitamente le discriminazioni di cui è spesso oggetto la comunità LGBT+, la sigla che include le persone con identità di genere e orientamenti sessuali non eterosessuali e non binari.
La legge Mancino, il principale strumento di lotta alle discriminazioni, nomina esplicitamente le discriminazione su base etnica e quelle basate sull’orientamento religioso, ma non dice nulla riguardo l’orientamento o l’identità sessuale.
Il tentativo di rimediare questa mancanza dura da decenni. La prima proposta di introdurre un’aggravante per le varie forme di discriminazione basate su genere e identità risale al 1996, quando venne presentata da Nichi Vendola, allora deputato di Rifondazione comunista. Da allora, quasi ogni legislatura ha avuto il suo tentativo di introdurre una legge simile, sempre senza successo.
Arriva il ddl Zan
Il percorso del ddl Zan inizia nella primavera del 2018, pochi mesi dopo le elezioni. In quelle settimane, alla Camera vengono presentate cinque proposte di legge diverse. Quella che diventerà il ddl Zan viene presentata il 2 maggio. Il primo firmatario che dà il nome alla legge è Alessandro Zan, 45 anni, già presidente di Arcigay Veneto oggi deputato Pd.
L’iter di queste proposte però procede lentamente. Al governo c’è la salda maggioranza Lega-Movimento 5 stelle, che non ha grande interesse a trattare di discriminazioni e omofobia.
Soltanto il 7 ottobre 2019, dopo il cambio di maggioranza e l’arrivo del governo giallo-rosso, la proposta viene assegnata alla commissione Giustizia della Camera. Nel luglio 2020, la commissione approva il testo di Zan, una sintesi che include e amplia le altre quattro proposte.
Ad agosto inizia la discussione in aula che si protrae per quasi tre mesi. Le opposizioni, guidate da Lega e Fratelli d’Italia, utilizzano ogni arma per cercare di fermare la legge, che accusano di essere un attacco alla famiglia tradizionale e alla libertà di parola. Al ddl vengono presentati ben 800 emendamenti.
Nel frattempo, il centrosinistra continua a trattare sul contenuto della legge, sia con il centrodestra che con chi dallo stesso centrosinistra o aree limitrofe chiede modifiche.
Su richiesta di Forza Italia e Italia Viva, ad esempio, tra le discriminazioni punite vengono aggiunte quelle contro i disabili. Nel testo della legge vengono poi inserite definizioni esplicite di sesso, genere, identità di genere e orientamento sessuale. Per evitare possibili conflitti con la tutela della libertà di espressione viene ribadito esplicitamente che la punibilità scatta quando vi sia «il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».
Alla fine, il 4 novembre, arriva l’approvazione. Nel voto a scrutinio segreto il ddl viene approvato da 265 deputati. In 193 votano no e uno si astiene. Cinque deputati di Forza Italia dicono di aver votato a favore in dissenso dal gruppo.
Si sa che il passaggio al Senato sarà difficile, ma i segnali di uno sgretolamento del centrodestra sono incoraggianti per i sostenitori della legge, che sentono di avere il vantaggio.
L’aggressione di Valle Aurelia
Quando arriva il momento di far passare il ddl in Senato, la situazione però si complica. I numeri della maggioranza sono molto più risicati nella camera alta. La seconda ondata del Covid, iniziata proprio in quei giorni, i primi tentennamenti del secondo governo Conte, le difficoltà della leadership del segretario Pd Nicola Zingaretti contribuiscono tutti a far scendere la legge nella lista di priorità e per quasi tutto l’inverno, il ddl scompare dal dibattito.
La situazione cambia improvvisamente quando a fine febbraio, nella fermata metro di Valle Aurelia, una coppia di ragazzi viene aggredita con pugni e insulti omofobi. Le due vittime sono un attivista e il suo compagno.
Il video dell’aggressione, diffuso il 21 marzo, causa un piccolo terremoto politico e i sostenitori del ddl tornano alla carica. Ad aiutarli c’è il fatto che anche gli altri nodi politici che ostacolavano la legge sono stati in parte risolti. C’è un nuovo governo, quello guidato da Mario Draghi, e un nuovo segretario del Pd, Enrico Letta, che dopo la pubblicazione del video annuncia: «L'impegno del Pd a favore del ddl Zan proseguirà con maggiore determinazione».
La lunga battaglia in commissione
Far avanzare la legge però non è facile. La commissione Giustizia è presieduta da un battagliero leghista, Andrea Ostellari, che con il sostegno di tutto il centrodestra è intenzionato a usare ogni strumento per bloccare la legge.
Ostellari prima rimanda di un mese la discussione della legge. Poi si auto-nomina suo relatore, una posizione di “regista” politico della discussione che gli consente ampi margini per rallentare il dibattito.
Ostellari usa tutte le armi a sua disposizione. Ad esempio, abbina il ddl Zan ad un’altra proposta, il ddl Ronzulli-Salvini, con contenuti opposti, obbligando così la commissione a discutere entrambi i provvedimenti e prolungando ulteriormente il dibattito.
Convoca un numero straordinario di audizioni, ben 225, di cui 170 saranno accettate. Tra le persone convocate, come ha scritto il sito Pagella Politica, ci sono numerose figure provenienti da l’integralismo cattolico, l’estrema destra e persino esponenti del mondo complottista e no-vax.
Così, dal 28 aprile, quando Ostellari viene costretto da un voto a calendarizzare il provvedimento in commissione, passano quasi tre mesi prima che il 13 luglio, finalmente, il ddl arrivi in aula al senato. Ma nel frattempo sono successi due fatti che non promettono nulla di buono per il futuro della proposta.
Vaticano e Italia Viva
Il 22 giugno trapela che il Vaticano ha segnalato all’ambasciatore italiano presso a Santa sede che il ddl Zan potrebbe violare il concordato tra stato italiano e chiesa cattolica.
Scoppia un feroce dibattito che viene risolto da un intervento del presidente del Consiglio Mario Draghi. «L'Italia è uno Stato laico non confessionale, il Parlamento è libero di legiferare», dice il giorno dopo la diffusione della notizia.
Quella che molti percepiscono come un’impropria ingerenza sembra dare nuovo fiato ai sostenitori del ddl. Ma le cose cambiano rapidamente. Meno di due settimane dopo, Italia Viva, il partito guidato da Matteo Renzi, cambia improvvisamente posizione.
Dopo aver votato sempre a favore della legge, annuncia di voler raggiungere un compromesso con la destra. I sostenitori della legge sono sorpresi e accusano Renzi di puntare a far fallire il ddl, poiché qualsiasi modifica obbligherà a un ritorno alla Camera, dove sarà sottoposta a un nuovo round di tattiche dilatorie, con il rischio di essere affossata sempre.
Per accontentare la destra, il partito di Matteo Renzi propone una serie di modifiche, tra cui l’eliminazione delle definizioni di identità di genere e dell’obbligo di tenere una giornata contro l’omo e transfobia nelle scuole. Alcuni sostenitori della legge accusano le modifiche di essere eccessive e di snaturare il provvedimento.
Renzi però per il momento non rompe definitivamente. Due giorni dopo il suo primo annuncio, i senatori di Italia Viva in commissione votano con il centrosinistra per far approdare la discussione in Senato.
La resa di Letta
La proposta di Italia Viva mette in serio dubbio l’approvazione del ddl. I senatori renziani sono sufficienti a farla fallire, se dovessero votare compatti, anche perché si temono defezioni anche tra le fila di Pd e Movimento 5 stelle e della parte di gruppo misto che fino ad ora ha sostenuto la legge.
Il clima si fa molto più pessimista e i rischi per la legge non tardano a manifestarsi. Il 13 luglio il ddl arriva in Senato e in occasione del primo voto avviene un altro episodio che sembra preludere alla condanna della legge.
Una proposta di sospensiva della legge da parte di Lega e Forza Italia viene bocciata per un solo voto, 136 contro 135 favorevoli. Sembra la conferma che i numeri per approvare la legge in Senato non ci sono o saranno comunque difficili da trovare. Italia Viva gongola e annuncia che la bocciatura del ddl è sicura se il resto del centrosinistra non accetterà di andare incontro alle richieste della destra.
La decisione che viene presa è quella di rimandare la discussione. La situazione è troppo delicata e tra altri provvedimenti, ostruzionismo delle opposizioni (sono stati presentati circa 700 emendamenti, tra cui una manciata di Italia Viva) e l’avvicinarsi della pausa estiva si decide di rimandare la discussione.
Una decisione all’unanimità di tutti i gruppi rimanda l’inizio delle nuove votazioni a dopo i ballottaggi delle amministrative. Le elezioni sono un successo per il Pd e il centrosinistra, ma la vittoria non cambia la situazione in Senato.
Italia Viva rimane ferma sulla sua posizione: modificare la legge altrimenti non passerà. Con i voti dei renziani e degli altri incerti più determinanti che mai, come dimostra il voto del 13 luglio, il segretario del Pd Letta alla fine decide di arrendersi.
La destra ha infatti presentato una richiesta di «non passaggio all’esame degli articoli», la famosa tagliola, un voto che con ogni probabilità si svolgerà a scrutinio segreto e che potrebbe bloccare il ddl per sei mesi.
Domenica 25 ottobre, ospite della trasmissione Che tempo che fa, Letta annuncia: «Chiederò ad Alessandro Zan di fare un’esplorazione con le altre forze politiche per capire le condizioni che possano portare a un’approvazione del testo rapida». Le modifiche saranno accettate «purché non siano cose fondamentali, sostanziali».
La fine
I conti dei favorevoli lasciano poco spazio all’ottimismo. Si parla di tre o quattro franchi tiratori nel Pd, forse 5 o 6 del gruppo misto che non votano da tempo con il centrosinistra. Basta aggiungere un pugno di senatori di Italia Viva e il ddl è condannato.
Le trattative sono rapide e inconcludenti. I temi su cui la destra e Italia Viva vogliono modificare la legge sono i soliti: eliminare le definizioni di identità di genere e limitare le giornate contro l’omo e transfobia nelle scuole. Alcuni dei punti da eliminare sono stati introdotti proprio su richiesta di Italia Viva.
Il Pd pone una condizione centrale: per trattare la famosa tagliola deve essere ritirata. Il voto infatti è fissato per il 27 ottobre e due giorni non bastano né per trattare né per modificare la legge. Il Pd rischia quindi di cedere sulla trattativa e trovarsi comunque con la legge rinviata di sei mesi. Il centrodestra rifiuta di ritirare la tagliola e le trattative nemmeno iniziano davvero.
Ieri, al voto segreto, come previsto e prevedibile, la legge è andata sotto. I voti favorevoli sono stati 131, quelli contrari 154. Si ipotizzano circa 25 franchi tiratori, provenienti dal gruppo misto, da Italia Viva e dallo stesso Pd.
L’ultimo capitolo della storia sono le accuse su chi sia stato il maggior responsabile di questa sconfitta. I sostenitori della legge per aver atteso fino all’ultimo per trattare, oppure i renziani, che a luglio, ancora prima del primo voto in Senato, avevano già aperto la porta alla possibilità di rimandare la legge alla Camera?
Per Renzi, si è tratto di un voto «stupidamente voluto dall’arroganza del Pd». Lo ha detto il giorno stesso del voto in Senato, quando lui, che è senatore, si trovava ospite del principe Bin Salman in Arabia Saudita, un paese dove l’omosessualità è punita con la morte o con le frustate.
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