C’è chi dice no, cantava in un suo celebre successo Vasco Rossi. Un ritornello che al governo viene ripetuto sul Pnrr da alcuni ministro. C’è infatti chi dice che sarà attuato senza mandare indietro nemmeno un euro a Bruxelles per realizzazione tutto quanto è stato promesso, magari con una revisione rispetto al programma iniziale.

E c’è chi invece sostiene l’esatto contrario: che alla fine bisognerà rispedire al mittente una parte delle risorse, perché proprio non si riesce a centrare i target di ogni progetto. A oggi la certezza è il ritardo della terza rata e le nubi che si addensano all’orizzonte per la quarta, su cui il rendiconto è previsto a fine giugno. Una partita a ping pong, o a padel visti i tempi, che non vede contrapposti maggioranza e opposizione, come si potrebbe pensare. E sarebbe anche naturale.

È il governo che smentisce sé stesso per bocca dei ministri con posizioni opposte tra big degli stessi partiti. Così dalla disciplina del campo di padel il Pnrr diventa un ring di una royal rumble di wrestling, con il medesimo dubbio della disciplina sportiva made in Usa: dove inizia lo scontro vero e dove finisce la recita? Nel gioco delle parti, alcuni ricoprono il ruolo del poliziotto cattivo e altri di quello buono, come nel wrestling.

Ma con il sospetto di affilare insieme le scimitarre propagandistiche contro i nemici, immaginari, che non rendono possibile la realizzazione del Pnrr. Gli indiziati numeri uno i predecessori al governo contro cui viene puntato il dito al primo problema. E sullo sfondo resta sempre la narrazione simil sovranista cara a Meloni e Salvini sul Cerbero dell’Unione europea, un corpaccione sclerotizzato dalla burocrazia e poco flessibile di fronte alle richieste concrete. Alimentando il sospetto che l’inasprimento dei rapporti con Bruxelles sia un obiettivo del centrodestra al governo per spostare la questione sul terreno della propaganda, congeniale alla presidente del Consiglio in vista delle Europee del 2024.

La scienza di Fitto

Da qui il gran ballo delle esternazioni inanellate settimana dopo settimana. Per spiegare la mission impossibile del Piano nazionale di ripresa e resilienza, Raffaele Fitto ha fatto ricorso al dogma dell’infallibilità della scienza: «È matematico», anzi «è scientifico» che «alcuni interventi da qui a giugno del 2026 non possono essere realizzati». Era il 29 marzo quando le agenzie battevano le dichiarazioni del ministro del Pnrr, non proprio uno passato di là a prendere un caffè, mentre commentava una relazione della corte dei conti tutt’altro che lusinghiera. La fotografia era quella di una situazione allarmante con un insito appello: “fate presto” o giù di lì.

Ma la sentenza era stata emessa, con accenti inequivocabili, dal ministro del Fitto, la figura che a palazzo Chigi è chiamato a occuparsi dell’attuazione del Pnrr, voluto da Giorgia Meloni in persona. A Fitto è arrivato a stretto giro pure l’inatteso sostegno del capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari che il 3 aprile, a pochi giorni dalla sortita del ministro, ha scandito: «Bisogna valutare se rinunciare a parte dei fondi. È meglio non spendere i soldi che spenderli male». Una lapide con inciso sopra la sigla del Pnrr. A cinque mesi dall’insediamento, il governo Meloni ha dato il segnale di resa: troppo difficile attuare tutto il Recovery plan. Con l’inevitabile scaricabarile su chi c’era prima.

Sempre tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, un altro big di Fdi, il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, se l’era cavata con uno slogan niente male: «Spendere i soldi è giusto, spenderli bene è necessario». Solo che dopo aver compreso l’enormità delle prese di posizione di Fitto e delle bordate di Molinari, si è scatenata l’ordalia della contraddizione, il tutto contro tutti di ministri che rende difficile capire quale sia la situazione reale. O che forse spiega alla perfezione il caos in cui versa l’esecutivo sul dossier più scottante, nonostante gli esercizi di ottimismo o il mantra di rassicurazioni mandato in etere a profusione. Con la consapevolezza che la cortina fumogena può fare gioco per coprire i fallimenti.

La sconfessione di Meloni 

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha fatto esercizio di equilibrismo: «Non prendo in considerazione di perdere le risorse, prendo in considerazione l’ipotesi di farlo arrivare a terra in maniera efficace», sconfessando in maniera indiretta il ministro del Pnrr, che è di Fratelli d’Italia. Ma lo stesso spartito è stato eseguito in casa leghista. Matteo Salvini ha detto una cosa opposta rispetto a quella di Molinari, che a Montecitorio presiede i deputati della Lega: «Per quello che riguarda me e l’intero governo è spendere tutti e bene i fondi, soprattutto quelli delle infrastrutture». Altro che rinuncia per votare il rischio che li spendiamo male.

Quella di Salvini sarebbe peraltro un’abiura delle dichiarazioni di Fitto, che siede allo stesso banco nel consiglio dei ministri. Solo che nessuno ha fatto finta di notarlo e si è tirato dritti. Il ministro del Pnrr si è preso un metaforico scappellotto pure dal collega di partito e numero uno al dicastero delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso. Rinuncia ai fondi? Macché. «Il ministro Fitto è stato frainteso e ha detto ben altro», ha affermato di recente Urso, perché «vogliamo utilizzare al meglio le risorse e possiamo farlo». Insomma, la solita categoria “dell’avete capito male” come rifugio peccatorum.

Così che, dopo una serie di metaforici rimproveri a mezzo stampa, lo stesso Fitto ha preso le distanze da se stesso, ricorrendo questa volta a una metafora medica: «Dobbiamo immaginare una terapia utile per dare al paese una soluzione», pur ricordando la necessità di operare una revisione dei progetti.

Ma per un ministro che si ravvede parzialmente, ecco un altro che torna alla carica sulla rinuncia parziale dei fondi. Mentre tutto il governo cercava di rassicurare l’universo mondo, o più prosaicamente mandava messaggi all’Unione europeo, il titolare della Difesa, Guido Crosetto, ha dato ragione al primo Fitto: «Il sistema Italia non è in grado di mettere a terra tutti i progetti del Piano, 200 miliardi in tre anni, bisogna prendere solo le risorse che siamo in grado di spendere». Nel derby Lega-Fdi, si è insinuata Forza Italia, che ha indossato i soliti panni di garanzia nei confronti dell’Ue. L’ultimo a parlare in questa direzione è stato il ministro della Pa, Paolo Zangrillo, al grido di «useremo tutte le risorse», seguendo la scia del coordinazione del nazionale e ministro degli Esteri, Antonio Tajani. «Manterremo tutti gli impegni presi», ha cercato di tranquillizzare sempre.

“Pronti”, ma non al Pnrr

E in questa danza intorno al Pnrr, gli occhi si sono concentrati a un certo punto sul sibillino ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti, altro titolato a esprimersi. Ma chi si attendeva un intervento risolutivo ha dovuto ricredersi, perché da par suo il dirigente leghista al comando del Mef ha oscillato tra l’inabissamento e una cauta presa di posizione: «Mi sembra che qualche aggiornamento oggi sia in qualche modo dovuto». E in questo caleidoscopio di contraddizioni e retromarce, è la posizione più realistica di un esecutivo che non riesce a venire a capo dell’attuazione del Piano, avviando la negoziazione con Bruxelles per la cancellazione di alcuni progetti e la realizzazione solo di quelli ritenuti fondamentali. E se non va bene, la colpa è dell’Europa, nelle intenzioni del governo.

Almeno un punto dovrebbe essere chiarito entro fine maggio: Fitto, rispondendo a un question time alla Camera, ha annunciato che a breve sarà inviata la relazione al parlamento sullo stato di attuazione del Pnrr. A quel punto non saranno più possibili bluff, dovranno esserci le informazioni nero su bianco. E per fortuna, perché oggi il quadro è magmatico con il governo che è un coro stonato. Tanto che assume sempre più connotati beffardi lo slogan “Pronti”, sbandierato da Giorgia Meloni in campagna elettorale. Evidentemente, come fanno notare i più maligni, il claim non era evidentemente riferito all’attuazione del Pnrr.

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