«Ci hanno torturato, la milizia fucilava le persone davanti ai nostri occhi». Conferenza stampa allo Spin Time e manifestazione a Roma per le associazioni e i sopravvissuti ai lager libici che chiedono al nostro paese di fermare il memorandum
Salvagenti e striscioni parlano chiaro. Nel primo pomeriggio di sabato 18 ottobre, le associazioni e Ong si sono ritrovate a Roma, in piazza Vidoni, per chiedere a gran voce lo stop al memorandum Italia-Libia. L’accordo d’intesa, firmato nel 2017 dal governo di centro sinistra di Paolo Gentiloni (quando Marco Minniti era al ministero dell’interno), per «combattere l’immigrazione illegale».
Un accordo sporco di sangue, secondo le associazioni e Ong, poiché in nome di quel memorandum in realtà si è lasciato piede libero a conclamate violazioni dei diritti umani da parte della guardia costiera libica (con alcune motovedette fornite dall’Italia e usate, a fine agosto, anche per sparare contro la nave Ocean Viking) e delle milizie locali, che gestiscono centri di detenzione in cui i migranti vengono rinchiusi, torturati e uccisi.
La manifestazione arriva in un momento caldo: il 15 ottobre, la camera dei deputati ha infatti confermato il rinnovo dell’accordo per i prossimi tre anni, con 153 voti favorevoli, 112 contrari e 9 astenuti. Secondo la maggioranza, il programma d’intesa sarebbe «uno strumento indispensabile per proseguire la strategia nazionale di contrasto ai trafficanti di immigrati e di prevenzione delle partenze dalla Libia».
In piazza, dopo la conferenza stampa ospitata dallo Spin Time, anche i sopravvissuti ai lager libici, arrivati insieme all’organizzazione umanitaria Refugees in Libya dell’attivista David Yambio, ex-vittima di Osama al-Najeem, conosciuto come generale Almasri: il torturatore libico ricercato dalla Corte penale internazionale (Cpi) e liberato dal governo italiano a gennaio di quest’anno.
Hassan Zakaria Omer, rifugiato sudanese co-fondatore di Refugees in Libya insieme a Yambio (a inizio anno bersaglio dello spyware Paragon), spiega che «le persone intercettate in mare dalla guardia costiera non vengono liberate, ma tornano nelle carceri libiche, dove vengono torturate. L’ho vissuto sulla mia pelle».
Uno dei sopravvissuti a questo inferno, Rashed (anche lui del Sudan), ha raccontato a Domani di essere stato rapito dalle motovedette dopo un naufragio nel Mediterraneo, per poi essere detenuto in diverse prigioni con innumerevoli tentativi di fuga prima di arrivare in Italia con un corridoio umanitario.
«Ci hanno torturato, ci davano poca acqua e poco cibo. La milizia fucilava le persone davanti ai nostri occhi dicendoci che sarebbe stata quella la nostra fine se non avessimo pagato il riscatto». Rashed, che all’epoca dei fatti aveva solo 17 anni, è stato detenuto anche in quella che gli attivisti chiamano “Guantanamo libica”, il carcere di Almasri a Zawiya, vicino a Tripoli.
«Quando sono scappato da Bani Walid ho camminato tutta la notte, da Zawiya invece siamo fuggiti mentre ci stavano sparando. Non so come sia riuscito a salvarmi scalando un gigantesco muro. Per fortuna a Tripoli ho conosciuto una persona che mi ha ospitato a casa sua permettendomi di riprendere le forze. Ero denutrito e non riuscivo a lavorare».
Un altro sopravvissuto, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha invece raccontato a questo giornale del suo periodo detentivo nel lager libico di Tajura. «Ci drogavano e poi ci picchiavano. Ci davano da mangiare un giorno sì e un giorno no. Il riscatto? Se sei del Sudan il prezzo è di tremila dollari, ma se sei eritreo, la cifra aumenta a cinquemila. Abbiamo assistito con i nostri occhi allo stupro di alcune donne migranti». «Quando mi sono ammalato mi hanno gettato fuori dal carcere perché non volevano curarmi, sono stato per terra tutta la notte e solo la mattina ho trovato le forze di alzarmi e scappare – aggiunge - Prima avevo tentato la fuga nove volte».
«Con questa manifestazione vogliamo denunciare la complicità dell’Italia e dell’Europa per ciò che succede in Libia», afferma Lam, anche lui sopravvissuto a cinque anni di torture nelle carceri libiche. «Non è un posto sicuro per i migranti, non ti lascia uscire. Siamo solo persone che cercano una seconda possibilità nella vita».
Hassan Nugud, dell’associazione per migranti Welcome United, che ha partecipato alla manifestazione in piazza Vidoni, dice a Domani: «Come rifugiati vogliamo lavorare per un’Europa in cui ogni persona si può muovere liberamente, senza confini. Vogliamo fermare le morti in mare e i respingimenti». Su quest’ultimo punto un dato allarmante arriva dall’Oim, organizzazione internazionale per le migrazioni. Secondo l’agenzia Onu, le persone migranti morte nella traversata del Mar Mediterraneo sono 28mila negli ultimi dieci anni.
«Con questo memorandum, il mare è diventato un gigantesco cimitero. L’Italia è complice dei crimini contro l’umanità in Libia. E con i centri detentivi in Albania questo Paese sta diventando creativo nel rendere la vita difficile alle persone migranti», aggiunge Nugud. «Ma in realtà il discorso riguarda tutta l’Europa. Stiamo parlando di un sistema di immigrazione razzista, non importa che sia qui o in Germania. E quando dico sistema non intendo i governi. Quelli cambiano. Parlo della mentalità».
© Riproduzione riservata


