La notizia arriva come una doccia fredda, sotto forma di un comunicato dettagliato scritto dai legali e dagli attivisti della campagna. Patrick Zaki sarà processato. Accadrà martedì 14 settembre a Mansoura, la sua città natale, dove era stato tradotto l'8 febbraio 2020 dopo che gli uomini dell'Agenzia per la sicurezza nazionale egiziana lo avevano torturato per una notte intera.

È a Mansoura che Patrick venne informato per la prima volta delle accuse contro di lui. Era appena uscito da 28 ore di oblio durante le quali la sua famiglia lo aveva cercato disperatamente dopo il suo arrivo all'aeroporto del Cairo da Bologna.

La sua custodia cautelare è durata un anno e sette mesi e c'è chi prevedeva che sarebbe durata ancora a lungo, superando i due anni previsti dall'ordinamento egiziano, come già accaduto per molti altri detenuti di coscienza. Lo scorso 9 settembre, invece, il giovane ricercatore è stato interrogato dagli inquirenti egiziani per la seconda volta in due mesi. Un avvenimento che preannunciava la fine delle indagini è così è stato.

Fino a cinque anni

Patrick verrà trasferito dal carcere di Tora e tornerà al penitenziario della sua città di origine, dove aveva scontato la prima parte della sua detenzione. Rischia sino a 5 anni di carcere, è questa la pena prevista per le imputazioni che Patrick affronterà davanti alla corte: «Diffusione di notizie e diffusione di terrore tra la popolazione, al fine di danneggiare la sicurezza e l'interesse pubblico».

A differenza di quanto affermato dalle autorità in questo lungo periodo di custodia cautelare, per Patrick le accuse si baserebbero non più sui dieci post di Facebook, che la difesa non ha mai visionato e dei quali ha sempre contestato la veridicità, ma soltanto su un articolo che Patrick ha scritto nel luglio del 2019. È un testo sulla condizione della minoranza cristiano copta nell'Alto Egitto, spesso protagonista di incidenti con i cittadini musulmani e soggetta a limitazioni dei luoghi di culto.

La documentazione di una situazione reale, quello che Patrick faceva da anni perché il suo lavoro, appunto, è quello di occuparsi di minoranze religiose e studi di genere.

«Siamo tutti spettatori e nessuno può dire cosa succederà», osserva Amr Abdelwahab amico di Patrick e attivista della campagna per la sua liberazione. Anche lui, come molti, è stato colto di sorpresa dall'accelerazione degli eventi. «E' uno scenario spaventoso», commenta. «L'unico dato positivo è che hanno tolto a Patrick l'accusa di associazione terroristica, il che riduce la pena massima che potrebbe essergli inflitta. Potrebbe anche ricevere solo una multa andare in libertà vigilata, chi può saperlo?».

Le accuse fittizie

Il processo è un punto di svolta nella vicenda del giovane ricercatore egiziano per cui l'Italia si è mobilitata da tempo, ma il quadro resta comunque gravido di incognite.

L'utilizzo dell'articolo sulla condizione dei cristiani in Egitto è un chiaro segnale di come la formulazione delle accuse resti fittizia e priva di logica. Come già accaduto peraltro in molti altri casi che hanno coinvolto detenuti di coscienza senza però mai arrivare a giudizio. Per esempio Ibrahim Metwally, avvocato e membro dell'Ecfr, l'organizzazione che rappresenta la famiglia di Giulio Regeni in Egitto. Metwally è in custodia cautelare dal 2017.

Allo scadere del termine legale per il primo fascicolo, il suo nome è stato iscritto in altre due indagini, nel 2019 e nel 2020, permettendo così alle autorità egiziane di tenerlo in carcere da ormai 4 anni.

E' andata diversamente, invece, ad Ahmed Samir Santawy, studente 29enne alla Central European University di Vienna. Nel febbraio 2021, poco dopo il suo ritorno in Egitto dalla capitale austriaca, Santawy era stato convocato dalla polizia per un interrogatorio e poi arrestato sulla base di un fascicolo segreto compilato dall'Agenzia per la sicurezza nazionale.

Il 22 giugno 2021 è stato condannato a 4 anni dopo essere stato rinviato a giudizio per una seconda inchiesta relativa a dei presunti post di Facebook scritti dal giovane studente che, secondo l'accusa, avrebbero diffuso notizie false allo scopo di minacciare la sicurezza nazionale.

Niente lieto fine

A differenza del caso di Ikram Nazih, la studentessa italiana arrestata in Marocco per blasfemia e dove le autorità italiane hanno svolto un ruolo centrale nel processo di appello, Patrick non ha alcuna sicurezza che l'arrivo del suo caso in aula possa concretizzarsi in un miglioramento delle sue condizioni. Se ricevesse una condanna di due anni di carcere, avrebbe già scontato quasi tutta la pena. Ma un eventuale appello potrebbe comunque ribaltare la sentenza, aumentare la condanna e riportare il giovane ricercatore in carcere.

Un precedente celebre,da questo punto di vista, è quello delle tiktoker Haneen Hossam e Mowadah al-Ahdam: condannate in primo grado e poi assolte in appello dall'accusa di incitamento contro la moralità. Sono tornate in carcere pochi mesi dopo per traffico di essere umani. Due indagini e due processi diversi che però avevano come prova un unico video di pochi secondi postato sul popolare social network.

Istantanee differenti dallo stesso paese, dove il diritto assume contorni soggettivi, la burocrazia vanifica ogni sforzo di chiarezza e la certezza di pene e garanzie resta una chimera.

Al momento nessuno, nemmeno nella ristretta cerchia di amici, parenti e avvocati di Patrick è in grado di prevedere cosa accadrà domani al tribunale di Mansoura. A loro, e a noi, tocca solo aspettare e sperare in un esito positivo.

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