Cinquantasettemila detenuti, quasi due terzi dei quali per reati legati all’immigrazione clandestina, alle tossicodipendenze, alla salute mentale a fronte di una disponibilità reale di circa 47mila posti; le numerose condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo e i richiami della Corte costituzionale; 84 suicidi nel 2022, il dato più alto da dieci anni. Ecco la carta d’identità delle carceri italiane, luogo di dolore e afflizione, assai lontane dall’idea di pena prevista dalla costituzione italiana che deve tendere al recupero del detenuto e ne deve salvaguardare l’integrità.

Tutto questo fa dire a Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio (Le pene e il Carcere, Mondadori Università, si intitola il suo ultimo bel libro) che il carcere è diventato «una grande discarica sociale, una sorta di ospizio per i poveri dove rinchiudiamo le persone che ci pongono problemi che andrebbero risolti in tutt’altro modo. Durante la pandemia le restrizioni del carcere erano in qualche modo collegate ai sacrifici dell’intera società e potevano apparire in qualche misura più sopportabili. Oggi, il mondo di fuori è ripartito ma le condizioni delle carceri italiane sono rimaste quelle di prima. E ciò ingenera disperazione: la spia è l’impressionante aumento dei suicidi».

Situazione disumana

La drammatica e inumana condizione delle carceri italiane è una sorta di afflizione aggiuntiva alla pena che si abbatte su una popolazione in prevalenza composta da persone fragili, disagiate, povere. Degli 84 suicidi 33 erano persone con fragilità sociali o personali, ovvero persone con disagi psichici o senza fissa dimora; 49 si sono uccisi nei primi sei mesi di detenzione; 21 nei primi tre mesi;15 nei primi dieci giorni; 9 nelle prime 24 ore; 5 sarebbero stati liberi entro un anno; 39 avevano una pena residua inferiore a tre anni; soltanto 4 avevano una pena residua di più di tre anni e uno doveva scontare 10 anni. 50 delle persone detenute che si sono uccise erano italiane e 34 straniere, di cui 18 senza fissa dimora.

Nove avevano tra i 18 e i 25 anni e tre più di 70 anni. 33 detenuti erano in carcerazione preventiva e sette in attesa del processo d’appello: «È il vuoto a caratterizzare ancora troppe carceri italiane: la dimensione di un tempo che scorre inutilmente semplicemente sottratto alla vita che non riesce a diventare un’opportunità di crescita di cambiamento, e poi reinserimento costruttivo per i detenuti, come ci chiede la Costituzione», ha detto commentando il record dei suicidi Daniela de Robert, dell’ufficio dell’Autorità del Garante nazionale dei detenuti. Non si tratta solo di sovraffollamento o degrado perché alcuni «non avevano fatto in tempo neppure ad essere immatricolati perché si sono uccisi subito. Non è il sovraffollamento o il carcere degradato a spingere le persone a gesti estremi, ma la disperazione: quella sensazione terribile di chi entra in carcere e pensa: “da qui non riemergerò mai più”», ha aggiunto.

Una gara oscena

L’ex pm Carlo Nordio, prima di diventare ministro diceva: «Il sistema carcerario è incompatibile con la rieducazione, perché troppo brutale. Le sue strutture edilizie e le condizioni inumane sono al limite della tolleranza, sono una vergogna della nostra pretesa giuridica». Lo scorso ottobre, da ministro, ha parlato dei suicidi all’interno delle carceri, definendoli «una drammatica emergenza, una dolorosa sconfitta per ciascuno di noi e la conferma della necessità di occuparci da vicino del mondo penitenziario». Il carcere, diceva Nordio «per me è una priorità assoluta: riconosco il grande impegno di chi mi ha preceduto e dell’amministrazione penitenziaria, che ha diffuso anche una circolare specifica sul tema dei suicidi. Molteplici possono essere le cause e i problemi dietro questo drammatico record: le urgenze del carcere – compresa la necessità di rinforzare gli organici di tutto il personale – saranno una delle mie priorità».

Mentre attendiamo che il ministro dia seguito alle sue buone intenzioni, la  discussione pubblica italiana sulle condizioni delle carceri è diventata una oscena gara tra chi propone più durezza, non più umanità. 

La reazione a Cospito

È successo nel caso Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da quasi quattro mesi  contro il 41 bis, la norma che prevede una serie di durissime restrizioni per evitare che i capi mafiosi continuino a comandare dal carcere. Chiunque invitasse a riconsiderare l’applicazione di quella norma anche ad accusati di reati gravi, come quelli dei quali è imputato Cospito, ma che nulla hanno a che fare con le modalità tipiche dell’organizzazione mafiosa, è stato indicato dalla destra come un complice dei terroristi e dei mafiosi.

Inutile obiettare che lo stesso procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo ha aperto alla possibilità di una diversa forma di detenzione per Cospito o che lo stesso procuratore generale della Cassazione ne aveva chiesto la revoca.

Sulla base, forse, della considerazione che l’organizzazione anarchica per sua natura è l’opposto della organizzazione mafiosa: un magma autorganizzato che non riconosce capi la prima, un’organizzazione verticistica  che s’incardina sul comando verticale dei capi la seconda. E che quindi misure come il 41 bis, se sono efficaci contro i mafiosi non lo sono contro gli anarchici. Cospito è diventato così non una persona concreta in pericolo di vita ma il simbolo astratto della ferocia dello stato. È questa simbolizzazione, e non i presunti ordini del capo dalle carceri a fomentare la radicalizzazione del conflitto.

La vicenda si sta ora avvicinando a un tragico esito: dopo che il 24 febbraio la corte di Cassazione ha confermato il carcere duro, l’anarchico ha annunciato che non assumerà più gli integratori che gli avevano con sentito di resistere nel suo lunghissimo sciopero della fame che  intende condurre fino alle estreme conseguenze: «Presto morirò», ha detto.

«Con la decisione della Cassazione», dice Anastasia, «la questione giudiziaria dell’applicazione del 41 bis ad Alfredo Cospito è sostanzialmente chiusa, almeno nel breve periodo dettato dal suo sciopero della fame. Resta però l’anomalia di una misura pensata per i capi di rigide organizzazioni criminali e applicata a un esponente di una non-organizzazione ideologicamente senza capi. Contro la prospettiva infausta della morte in stato di detenzione di un uomo in sciopera della fame ora resta solo l’arma della politica: prendere sul serio le critiche che da più parti sono venute in queste settimane all’abuso del 41 bis (è lecito dubitare che persone in sostanziale isolamento da dieci, 20 o 30 anni siano ancora in condizione di dare ordini a qualcuno) e agli abusi nel 41 bis (le inutili limitazioni nella vita quotidiana dei detenuti che nulla hanno a che fare con le finalità di prevenzione del regime), critiche che originano da sentenze della Corte europea dei diritti umani e della Corte costituzionale, da rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dal Garante nazionale dei detenuti, e lavorare alla sua riforma, per la sua riconduzione alle strette necessità che lo giustificano».

Il garantismo latita

La destra, dunque, messe da parte le sbandierate intenzioni garantiste del ministro Carlo Nordio, vira sulle tradizionali politiche securitarie con misure come quelle su immigrazione e rave party mentre mantiene la legislazione proibizionista sulle droghe leggere e quindi alimenta proprio quel circuito devianza-carcere che è la causa della sovrappopolazione delle nostre carceri. Per la destra il garantismo vale solo per i potenti, per i poveracci carcere duro e buttare via la chiave. Ma anche nell’opposizione le voci autenticamente garantiste sono isolate e quelle giustizialiste guidate dal partito di Giuseppe Conte invece dominano il coro.

Secondo Anastasia questa egemonia antigarantista nasce «dai presupposti giustizialisti su cui è nata la Seconda repubblica, molto meno attenta ai diritti della prima». Non è un problema solo italiano. Entrata in crisi  la funzione di coesione sociale e di riduzione delle diseguaglianze del welfare, spiega Anastasia, il neoliberismo ha scelto la strada delle politiche securitarie offrendo come sbocco alle insicurezze e alla paure dei cittadini la logica del capro espiatorio, la repressione e il carcere, invece che politiche sociali ed economiche in grado di risolvere i problemi dei ceti più svantaggiati

L’uso populista della giustizia  non è tuttavia una prerogativa della destra: «Di sinistra si presenta l’uso populista della giustizia penale che si rivolge direttamente contro le élite che l’attore politico intende avversare, mentre di destra è quello che si indirizza contro soggetti marginali identificati come sostituti simbolici di quei poteri forti che impediscono l’esercizio della sovranità popolare»

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