L’accordo raggiunto sulla rielezione a presidente della Repubblica di Sergio Mattarella apre una voragine all’interno dei piani alti della coalizione del centrodestra. Il parlamento, invece, festeggia. A metà giornata di sabato 29 gennaio sono le parole del ministro dello Sviluppo economico, il leghista Giancarlo Giorgetti, a dare prova del malessere della coalizione delle destre. Non sarà più uno dei ministri del governo di Mario Draghi? «È una ipotesi, magari c'è da migliorare la squadra. Intanto oggi vado a casa», ha detto parlando con l’agenzia Agi.

Il ministro leghista è sempre stato favorevole alla candidatura dell’attuale premier Mario Draghi, opzione su cui però il leader Matteo Salvini non ha mai lavorato, anzi ha fatto di tutto perché non accadesse. Anche a Montecitorio, dove si svolgono le votazioni ormai da sei giorni, la sensazione generale tra i grandi elettori di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia è che le cose siano andate male, Salvini non è stato in grado di tenere unita la coalizione e soprattutto, per dirla con le parole di un deputato di Forza Italia, “ha bruciato candidati ogni volta che ha parlato”.

La frattura

In mattinata Salvini ha fatto gli ultimi tentativi. Come lui stesso ha ammesso con i suoi parlamentari riuniti nel pomeriggio, ha provato a proporre la candidatura a due ministri in carica. Probabilmente Marta Cartabia e Roberto Cingolani, ma gli altri partiti avrebbero rifiutato. Arrivata dal centrosinistra la richiesta di convergere sul bis di Mattarella, Salvini, sconfitto, accetta

Forza Italia e i centristi già venerdì sera aveva scaricato Salvini. Dopo il caso della presidente del Senato Elisabetta Casellati, e la fuga in avanti sul capo dei servizi segreti, Elisabetta Belloni, Antonio Tajani, numero due del partito di Berlusconi, aveva annunciato che avrebbero proceduto da soli nelle trattative, creando un fronte unico con i centristi di Coraggio Italia, guidati da Giovanni Toti e Luigi Brugnaro. Prima dell’accordo sul nome di Mattarella il gruppo del centro si stava organizzando per votare Pier Ferdinando Casini, insieme a Italia viva e una corrente del Pd, Base riformista.

Il partito di Silvio Berlusconi è d’accordo sulla rielezione di Mattarella. Il cortile di palazzo Montecitorio è pieno di parlamentari berlusconiani che lo confermano. La vera frattura, quindi, si è creata con Giorgia Meloni e il suo partito. La leader, subito dopo l’accordo raggiunto tra i partiti che compongono la maggioranza di governo (Pd, M5s, Lega, Iv e Leu), ha scritto su Twitter: «Salvini propone di andare tutti a pregare Mattarella di fare un altro mandato da presidente della Repubblica. Non voglio crederci». E poi parlando con la stampa ha detto che la rielezione è una «anomalia», e il suo partito non lo voterà. Probabilmente nell’ultima votazione punterà sul candidato di bandiera Marcello Pera.

Una divisione che sarà molto difficile da ricucire. E che potrebbe nuocere alla solidità della coalizione che il prossimo anno dovrà presentarsi alle elezioni. In transatlantico, il grande corridoio antistante all’aula di Montecitorio, qualche parlamentare scherza già sulla legge elettorale. Lo scricchiolio delle destre, infatti, apre la possibilità di una riforma in senso proporzionale, con M5s, un pezzo del Pd, Forza Italia che sono già favorevoli. Salvini potrebbe essere tentato, lasciando a Meloni da sola sulla richiesta del maggioritario. È presto per dirlo ma la politica, quando vuole, è capace di muoversi in fretta.

Un presidente scelto dal parlamento

Foto AGF

La giornata è iniziata con una dichiarazione di Enrico Letta che ha fatto quello che tutti alla Camera si aspettavano: «Dobbiamo ascoltare il parlamento», quel parlamento che da giorni mandava segnali ai rispettivi leader per chiedere a Mattarella di rimanere. Alla prima votazione il nome del presidente attuale è stato scritto 16 volte e poi sempre a salire: alla seconda 39, alla terza 125, alla quarta 166, alla quinta “solo” 46 data la candidatura, poi crollata, della presidente del Senato Elisabetta, nella sesta 336, nella settima, quella svoltasi questa mattina, 387. E stasera, intorno alle 21.30, dovremmo avere un nuovo-vecchio presidente eletto con un plebiscito.

Ci sono stati diversi architetti di questa operazione, il primo uscito allo scoperto è stato Matteo Orfini del Pd, che guida una delle correnti del partito, i cosiddetti Giovani turchi. Ma nel suo partito si sono impegnati anche il costituzionalista Stefano Ceccanti e il deputato Fausto Raciti. Hanno usato la tattica politica, quella del linguaggio e dell’attesa. Ma insieme a loro un’altra persona si è mossa in questa direzione e ha guidato tutto il suo gruppo di appartenenza nonostante il presidente Giuseppe Conte fosse fortemente contrario. Il senatore M5s Primo di Nicola per giorni ha perorato questa strada e ha guidato decine di parlamentari a votare Mattarella già dai primi scrutini.

Il leader ne escono malconci

Si arriva dunque all’ottava e quasi sicuramente ultima votazione con quasi tutti i leader meno leader di prima. L’unico che ne esce con qualche graffio è il segretario del Pd Enrico Letta. Tutti gli altri, Salvini in primis, hanno contribuito in qualche modo a l’impossibilità di eleggere un nuovo presidenza e replicare quanto successo otto anni fa con Giorgio Napolitano, che per la prima volta nella storia accettò la rielezione.

Un segnale arriva anche dal Quirinale, dallo stesso Mattarella che in questi giorni si è chiuso nel silenzio: nelle ultime ore ha parlato solo con Mario Draghi, che di fatto si è fatto mediatore con i partiti della rielezione, e nel pomeriggio di sabato ha incontrato i capigruppo parlamentari dei singoli schieramenti, e non i capi partito. Durante l’incontro il presidente che non ha nascosto «che aveva altri piani», ma come ha riferito uscendo dall’incontro la capogruppo delle Autonomie al Senato Julia Unterberger, «non ha posto condizioni». Se c’è necessità Mattarella c’è.

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