Nessun partito ha ancora fatto il nome di Mario Draghi in modo esplicito come candidato al Quirinale, e già questo riassume la situazione paradossale del presidente del Consiglio.

Un po’ tutti lo considerano il candidato più adatto al ruolo, la valutazione dei vari partiti riguarda un altro aspetto: se la sua elezione a capo dello Stato risolve più problemi di quanti ne crea.

Fino a un paio di settimane fa, sembrava impossibile spostare l’ex presidente della Bce da palazzo Chigi: troppi partiti erano contrari a turbare un equilibrio che garantisce la durata della legislatura fino al 2023.

Ma nella conferenza stampa di fine anno, Draghi ha posto una condizione chiara per la sua permanenza al governo: che la maggioranza ampia che lo sostiene, dalla Lega a LeU, non si spacchi sull’elezione del capo dello stato, meglio ancora se si allarga a Fratelli d’Italia.

Questo scenario sembra quasi impossibile, oggi: i partiti di centrosinistra non sono disposti a votare un nome di destra, Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia non hanno i numeri per imporre un presidente da soli, il bis di Sergio Mattarella che piacerebbe a molti trova contrari almeno Lega e Fratelli d’Italia.

Alla fine, la maggioranza larga che sostiene il governo esiste solo intorno al nome di Draghi, che sia a palazzo Chigi o al Quirinale. E questa è la maggiore garanzia del premier nella partita che si apre ora.

La mossa di Silvio Berlusconi, che ha ritirato la sua candidatura con la richiesta contestuale che Draghi resti a palazzo Chigi, rimanda la decisione alla quarta votazione: nelle prime tre con quorum più alto a questo punto il centrodestra testerà altri nomi privi di maggioranza, dalla quarta (quorum a maggioranza assoluta) si può valutare se ci sono i numeri per convergere su Draghi, anche se si potrà fare un solo tentativo: mandare Draghi in minoranza come possibile presidente della Repubblica significherebbe di fatto sfiduciarlo come presidente del Consiglio. 

© Riproduzione riservata