Fino a gennaio Seif Bensouibat era un apprezzato educatore del prestigioso istituto Chateaubriand di Roma. I rapporti con i colleghi e la dirigenza erano ottimi, facevano viaggi e serate insieme, non c’erano mai stati problemi. Oggi invece Bensouibat si trova in un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr), quelli che siamo soliti chiamare “lager di Stato” per le condizioni inumane e degradanti in cui versano le persone rinchiuse lì dentro.

La vita di Bensouibat è stata stravolta nel giro di poco per colpa di alcuni post con cui contestava Israele e sosteneva la resistenza palestinese, ammiccando ad Hamas. Post pubblicati su una chat privata e per cui si è subito scusato. Ma che gli sono costati, nell’ordine: licenziamento, perquisizioni, indagine penale, perdita dello stato di rifugiato e, ora, l’ingresso nel Cpr per l’espulsione.

«Una cosa inaudita», ha denunciato Luigi Manconi, ex presidente della Commissione parlamentare per la tutela dei diritti umani, mentre la vicenda è finita anche in parlamento, con un’interrogazione parlamentare del senatore Giuseppe De Cristofaro (Alleanza Verdi e Sinistra).

Chi è Seif Bensouibat

Seif Bensouibat, 38 anni, è un cittadino algerino e il suo arrivo in Italia è datato 2013. Qui ottiene lo status di rifugiato politico e inizia a lavorare come educatore nel liceo romano Chateaubriand, una prestigiosa istituzione scolastica di lingua francese. Non viene segnalato alcun problema, i rapporti con i colleghi sono ottimi e Bensouibat ottiene un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Contratto che però si interrompe nel febbraio 2024, quando viene licenziato.

Il problema sta in alcuni post pubblicati da Bensouibat in una chat privata che condivideva con amici e colleghi. In uno con toni forti accusa Israele e i paesi occidentali per il genocidio in corso, sottolineando che prima o poi l’avrebbero pagata. In un altro è ritratto il portavoce dell’organizzazione radicale palestinese Hamas. In un altro ancora fa un parallelo tra la resistenza palestinese e la liberazione dell’Algeria, il suo paese, scrivendo che quelli che venivano chiamati terroristi sono poi diventati eroi nazionali con l’indipendenza.

«Ho caricato le foto sull’onda dell’emozione dopo aver visto delle immagini dei bambini morti nel conflitto a Gaza», spiega Bensouibat, che subito si scusa per il tenore dei post. Quando li pubblica, Israele ha già ucciso 25mila persone a Gaza, mentre alla Corte internazionale di giustizia è iniziato il dibattimento per stabilire se condannare il paese per genocidio. Qualcuno nella chat segnala i suoi contenuti, la cosa arriva fino alla dirigenza del liceo Chateaubriand. Che lo licenzia. Ma la cosa non finisce lì.

Dentro al lager di Stato

La Digos si presenta a casa dell’uomo, che è incensurato, e la perquisisce alla ricerca di armi, esplosivi e altre cose che possano legarlo al terrorismo. Non viene trovato niente.

Il 5 febbraio il permesso di soggiorno di Bensouibat come rifugiato politico viene sottoposto a revoca. Su di lui viene aperta un’indagine penale per minaccia aggravata e istigazione e propaganda finalizzata alla discriminazione. «I suoi post vengono associati al fenomeno del terrorismo di matrice religiosa, dei lupi solitari e dell’auto-addestramento attraverso internet», spiega a Domani Flavio Rossi Albertini, il suo avvocato.

Nel frattempo in questi mesi la vita di Bensouibat prosegue normalmente, tranne per il lavoro che non c’è più. Finché il 16 maggio avviene una nuova irruzione in casa sua, questa volta da parte della polizia. All’uomo viene revocato lo status di rifugiato politico: deve essere espulso dall’Italia.

Viene portato nel Centro per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, uno dei più grossi buchi neri della democrazia italiana, quei lager di Stato dove la gente si cuce la bocca e si spezza le gambe pur di uscire, dove l’ultimo suicidio è avvenuto solo due mesi fa, dove vengono negati diritti e libertà di base. Tanto che, dalla società civile alla politica, il coro è quasi unanime (tranne a destra) per la sua chiusura.

La vicenda in parlamento

«Anche volendo stigmatizzare, rimproverare, censurare il tenore di quei post, stiamo comunque parlando di post in una chat privata, come ce ne sono a milioni in questo periodo», sottolinea Rossi Albertini. «Per quei post ha subito licenziamento, perquisizioni, revoca dello status di rifugiato e decreto di espulsione. Stiamo parlando di una follia, è di una tale sproporzione quello che sta subendo che si smarrisce il senso delle cose».

Nei prossimi giorni ci sarà l’udienza di convalida del trattenimento al Cpr, poi i legali avranno trenta giorni per preparare il ricorso contro il provvedimento che ha revocato a Bensouibat lo status di rifugiato. «Tra l’altro è paradossale che nel 2013 lo hanno ritenuto meritevole di protezione perché in Algeria la sua vita era a rischio e ora che la situazione nel suo paese non è cambiata di una virgola vogliono rimandarlo lì, di fatto consegnandolo ai suoi carnefici», chiosa Rossi Albertini.

In giro per l’Italia sta crescendo la mobilitazione contro l’espulsione dell’ex educatore del liceo Chateaubriand. A schierarsi è stato anche Luigi Manconi. «Il decreto di espulsione è una decisione inaudita», ha sottolineato.

In una lettera al Manifesto ha poi aggiunto che «le opinioni, anche le più lontane dalle nostre, quando restano opinioni, tanto più come in questo caso espresse in forma privata, non debbano costituire un fattore di criminalizzazione».

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