È una polemica di vecchia data quella che contrappone il governo e il mondo del cinema sul futuro del tax credit. Da una parte il ministro della Cultura Alessandro Giuli, che ha messo nel mirino i milioni di euro elargiti per film che «hanno staccato qualche decina di biglietti, o peggio mai usciti nelle sale». Dall’altra l’industria del cinema, in allarme per i tagli previsti in manovra al Fondo per il cinema e l’audiovisivo, cassaforte di importanti sostegni tra cui appunto il tax credit.

Sul credito d’imposta, del resto, pesa l’eredità degli ultimi mesi. I nuovi controlli introdotti dopo il caso Kaufmann, che ha scoperchiato il rischio di frodi da parte di “produzioni fantasma”, e la riorganizzazione della Direzione generale cinema e audiovisivo hanno generato rallentamenti nella filiera, proprio mentre il mercato chiedeva rapidità di esecuzione. Le decisioni prese nelle prossime settimane peseranno sui primi trimestri del 2026, quando molte produzioni entreranno in fase esecutiva.

Ma quali sono i meccanismi di finanziamento del cinema? E perché sono tanto discussi? In Italia il settore è finanziato attraverso il Fondo per il cinema, che prevede tre metodi di intervento. Ci sono i contributi selettivi, che sostengono specifiche tipologie di film (come le opere prime e i documentari) e i contributi automatici, basati su parametri che misurano i risultati artistici, economici e culturali ottenuti da precedenti opere. Ma la parte del leone la fanno i crediti d’imposta, per cui sono stati stanziati 412 milioni nel 2025.

Un meccanismo complesso

I crediti d’imposta, introdotti nel 2007 e potenziati nel 2016 dall’allora ministro Dario Franceschini, sono una compensazione dei debiti fiscali e previdenziali delle imprese, calcolata sulla base dei costi sostenuti per lo sviluppo, la produzione e distribuzione di film e opere tv. A beneficiarne sono principalmente i produttori indipendenti o originari delle opere audiovisive, ma esistono differenze nelle aliquote e nei massimali a seconda della tipologia di opera e della nazionalità del produttore.

Per i film italiani, inclusi i cortometraggi, il tax credit è del 40 per cento delle spese di produzione per i produttori indipendenti, mentre per i non indipendenti è del 25 per cento. Il massimo annuo è di 9 milioni di euro per impresa o gruppo di imprese. Per le opere televisive e web italiane, la percentuale varia invece dal 30 al 40 per cento. A questi vanno aggiunti i crediti per la produzione di film e opere televisive non italiane, realizzati anche parzialmente in Italia, con aliquota del 40 per cento.

L’importo non viene erogato in denaro, ma in credito d’imposta: ciò vuol dire che può essere usato unicamente per pagare tasse e contributi per i lavoratori di un progetto che gravano sulla spesa per quell’investimento. Eventuali eccedenze non utilizzate possono essere cedute a banche o intermediari finanziari, a condizione che l’80 per cento delle somme ricavate sia reinvestito nel settore.

Il beneficiario chiede il riconoscimento del tax credit in due fasi: la richiesta preventiva, che avviene all’inizio della lavorazione dell’opera, e la richiesta definitiva, presentata a fine lavorazione dopo il sostenimento della relativa spesa. Una procedura che consente a chi ne ha diritto di utilizzare il credito di mese in mese, in base alle spese sostenute nel mese precedente. Ma che, in assenza di controlli stringenti, si presta a frequenti frodi e altre distorsioni.

Tra storture e modifiche

Le tensioni sul credito d’imposta si trascinano da anni, in linea con la tesi dell’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, secondo cui il tax credit è una misura fallimentare che finanzia tantissimi film che incassano pochissimo. Una critica solo in parte condivisibile, dato che gli incassi al botteghino non dicono tutto: «Il credito produce un’accelerazione degli investimenti, con conseguenze occupazionali interne ed esterne al settore. Gli incassi dei film poco hanno a che vedere con le vere aspettative degli investimenti», ha spiegato a Box office Gianfranco Rinaldi, avvocato e consulente nel settore audiovisivo.

La manovra 2024 ha provato a correggere alcune storture del sistema, prevedendo multe da 10 a 50mila euro per chi certifica falsamente i costi su cui viene applicato il credito e un tetto al tax credit sui compensi di registi e attori e sceneggiatori, per evitare che parte significativa del beneficio sia assorbita dai cachet milionari di registi e star. Nell’estate dello scorso anno è poi arrivato il decreto Sangiuliano, presentato come necessario per stringere le maglie e scongiurare frodi ma ispirato da un senso di rivalsa verso un settore «in mano alla sinistra».

Il decreto, curato dalla sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni, annulla l’automatismo tra produzione e credito d’imposta, costringendo le imprese a presentare domanda per il beneficio. Inoltre, per accedere al tax credit i produttori devono assicurarsi un contratto con «le prime venti società di distribuzione»: di qui il rischio di favorire le produzioni ad alto budget controllate da colossi stranieri, dato che le prime cinque società attive in Italia sono appunto estere. Il tutto a scapito delle piccole e medie produzioni italiane, che hanno presentato ricorso al Tar per contrastare la riforma.

La manovra 2025 ha insistito su questa strada, introducendo nuove soglie e criteri di selezione più stringenti e potenziando il sistema dei contribuiti automatici. Resta però il nodo della carenza di dati, analisi e controlli, che ha favorito frodi e sprechi di denaro pubblico. «Bisognerebbe creare una commissione di esperti per un controllo primario dei budget e un calcolo presuntivo dei ricavi in termini di benefici pubblici derivanti dagli investimenti, con la possibilità di dirigere le spese verso quelle che producono più risultati», ha notato Rinaldi.

E fuori dall’Italia?

«In tutti i paesi avanzati cinema e audiovisivo ricevono aiuti pubblici per il loro valore culturale, ma anche per il ruolo che svolgono nel proiettare l’immagine del paese a livello internazionale», si legge in un comunicato di 100autori, Anac e Writers guild Italia. E in effetti molti stati, incluse Francia e Germania, finanziano il settore attraverso aiuti diretti (sovvenzioni e prestiti) e indiretti (come il tax credit). Il credito d’imposta, in particolare, c’è in paesi come Regno Unito, Ungheria e nella maggior parte degli stati americani.

Un faro nel sostegno al cinema lo è da sempre la Francia, dove il cuore del sistema – gestito dal Centre national du cinéma – è il Fondo di sostegno automatico: un produttore, realizzando un film, accumula punti che si trasformano in un conto spendibile per finanziare nuove produzioni, e più un film performa – al botteghino, in tv, ma anche a livello di premi e di vendite all’estero – più punti si accumulano. Significativo ma più laterale è il crédit d’impôt cinéma, che offre un credito fino al 30 per cento per le produzioni francesi ed europee impegnate in territorio francese.

Pur adottando strumenti simili, Italia e Francia hanno raggiunto “equilibri” diversi. In Italia le risorse erogate con strumenti indiretti sono cresciute negli anni, mentre quelle trasferite in modo diretto sono diminuite: di conseguenza, i crediti d’imposta assorbono la maggior parte dei fondi, nonostante gli sforzi del governo Meloni per invertire la rotta. Anche in Francia le risorse concesse in modo indiretto sono cresciute nel tempo, ma oltralpe trasferiscono ancora direttamente la maggior parte dei fondi.

Altro caso degno di nota è quello della Spagna. Fiore all’occhiello del sistema spagnolo sono gli incentivi fiscali (tax rebates), con un credito d’imposta fino al 30 per cento per il primo milione di spesa e al 25 per cento per la spesa eccedente, ma con limiti massimi elevati.

Ciò pone rimedio a un limite del sistema italiano, dove più alta è la cifra spesa e più alto è il rimborso (se per un film vengono spesi svariati milioni, lo stato restituisce il 40 per cento del totale). Un meccanismo distorto che avvantaggia i grandi produttori, per cui il tax credit non è essenziale, e penalizza i piccoli e i medi, che senza sconti fiscali potrebbero non farcela.

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