Lasciateli lavorare. È forse la frase che viene più spesso ripetuta quando qualcuno avanza obiezioni nei confronti del governo guidato da Giorgia Meloni. Sono entrati in carica il 25 ottobre, cosa vi aspettate che facessero in poco meno di 90 giorni? 

Si risponde così anche quando, sommessamente, si fa notare che l’esecutivo, per ora, ha approvato i suoi principali provvedimenti ricorrendo in maniera sistematica al voto di fiducia. I tempi stretti, i vincoli esterni, la necessità di dare risposte immediate. Tutto è utile per spiegare quello che in realtà, a ben vedere, è solo un primo segnale di una grande debolezza.

I numeri

Il 25 ottobre 2022  il governo guidato da Giorgia Meloni ha ottenuto la fiducia delle camere con 235 sì alla Camera e 115 al Senato. Una maggioranza solida. Tant’è che quando qualcuno ha chiesto alla premier, durante la conferenza stampa di fine anno, se fosse preoccupata dalla tenuta della sua maggioranza, lei ha risposto quasi piccata: «Sono convinta che i miei tempi coincidano con quelli dei miei alleati, di 5 anni. Uno dei punti di forza dell’Italia di oggi è un governo stabile. La posta in gioco è molto alta e tutti se ne rendono conto. Vorrei che si vedesse che stiamo lavorando, affrontando anche le grandi questioni spinose che altri non volevano affrontare, assumendosi la responsabilità delle nostre scelte».

Da quel 25 ottobre il governo ha fatto ricorso alla fiducia in altre 3 occasioni. Fiducia sulla manovra (221 sì alla Camera e 109 al Senato tra il 23 e il 29 dicembre). Fiducia sul decreto Aiuti quater, 105 sì al Senato il 21 dicembre e 205 alla Camera l’11 gennaio. Fiducia sul decreto Rave, 206 sì ma solo alla Camera visto che al Senato è stato approvato, senza forzare i tempi, ma con soli 92 sì.

I numeri non sono tutto ma a una prima, superficiale, osservazione si può notare che l’esecutivo ha sempre preso meno voti di quelli ottenuti a ottobre che, almeno sulla carta, dovrebbero certificare l’ampiezza della maggioranza. Assenze e missioni hanno ovviamente inciso, soprattutto a palazzo Madama visto che diversi esponenti del governo sono anche senatori.

Ma a far preoccupare più di tutti è proprio l’unica occasione in cui Meloni e i suoi non hanno fatto ricorso al voto di fiducia. Quei 92 sì al decreto Rave sono la dimostrazione che, quando possibile, la maggioranza non disdegna andare in ordine sparso.

Per fare qualche veloce comparazione, anche in questo caso non certo esaustiva, Meloni al momento ha una medi di 1,95 voti di fiducia ogni 30 giorni. Peggio di lei hanno fatto i governi Monti (3,82) Draghi (3,15), Conte II (2,12) e Gentiloni (2,05). Cioè governi in parte tecnici, retti da alleanze ampie o piuttosto litigiose (basti ricordare la fine che Matteo Renzi ha fatto fare al Conte II). Insomma esecutivi che spesso, per ragioni di sopravvivenza, avevano la necessità di ricorrere al voto di fiducia.

Altro dato: nei quasi 90 giorni del suo governo Meloni ha già chiesto più fiducie del governo Conte I. A dimostrazione che forse Matteo Salvini andava più d’accordo con il M5s che con FdI.

Divisi alla meta

Certo ufficialmente Meloni rivendica la compattezza del suo esecutivo. E sui quotidiani è tutto un parlare di partitici unici che verranno. Resta da vedere cosa succederà da qui in avanti, ma l’impressione è che la situazione possa solo peggiorare. 

In fondo il centrodestra, pur in alleanza, si è presentato alle elezioni con un “quadro di programma” lasciando poi a ogni singolo partito la possibilità di presentare una propria piattaforma. 

Così, ad esempio, FdI ha elaborato un proprio programma di 40 pagine che amplia di molto i punti toccati dall’accordo siglato dagli alleati. È lì, ad esempio, che si parla di «sterilizzazione delle entrate dello stato da imposte su energia e carburanti e automatica riduzione di Iva e accise». Argomento che in questi giorni sta facendo discutere molto il centrodestra.

Forza Italia, ad esempio, ha eletto tra i suoi deputati Luca Squeri, già presidente federazione di Confcommercio che rappresenta i benzinai. Ed è stato proprio lui, responsabile energia del partito, a ribadire ieri, intervistato dall’Huffington Post, che «il decreto Meloni sulla benzina non risolve i problemi». Servirà un altro voto di fiducia per approvarlo?

Conflittualità in aumento

Anche le nomine fatte finora sembrano aver risentito di questa tensione in aumento. Al ministero del Tesoro resistono, finora, sia il direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera, che il ragioniere generale dello stato, Biagio Mazzotta. Che pure il governo, stando alle cronache, vorrebbe sostituire. Per le agenzie fiscali si è preferito confermare Ernesto Maria Ruffini (Entrate) e Alessandra Dal Verme (Demanio), sostituendo il solo Marcello Minenna (Monopoli). Eppure Dal Verme sembrava ormai prossima a essere cacciata. 

Certo, come qualcuno ha fatto notare, il centrodestra non ha abbastanza professionisti della pubblica amministrazione “fedeli”. Ma il “machete” evocato dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, sembra essersi abbattuto, per ora, solo su chi non può dare troppo fastidio alla maggioranza (Minenna è vicino ai Cinque stelle mentre Giovanni Legnini, sostituito come commissario alla ricostruzione post terremoto, è del Pd).

Cosa succederà sull’imminente elezione dei laici del Csm (le camere sono convocate per il 17 gennaio)?

Come se non bastasse anche le tanto annunciate riforme “economiche” al momento sono rimaste al palo. Un po’ per la mancanza di soldi (ma questo era semplice da immaginare), un po’ per l’insipienza di alcune proposte, un po’ anche per il malumore di pezzi della maggioranza e delle lobby che rappresentano. 

Con l’avvicinarsi delle regionali sarà ancora più difficile, per Meloni, contenere gli appetiti dei suoi alleati. Finora se l’è cavata ricorrendo alla fiducia, ma quanto potrà ancora durare?

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