Per gli esteri è stato un anno ricco di eventi e notizie. Ricorderemo certamente l’assalto a Capitol Hill e la caduta dell’Afghanistan in mano ai talebani come due fatti che saranno sicuramente incisi nei libri di storia. Ma ci sono cinque guerre che sono passate un po’ in sordina e sono state dimenticate.

SIRIA

AP Photo/Hani Mohammed

A che punto è la situazione in Siria dopo la sanguinosa guerra civile? Ci sono tre dati che possono essere utili per leggere l’attuale situazione: la minaccia dell’Isis è stata ridotta ma non è scomparsa del tutto; le premesse del rovesciamento del regime di Assad si sono rivelate illusorie e, infine, i curdi siriani sono stati abbandonati dagli Stati Uniti ai tempi di Donald Trump, il quale diede il via libera all’invasione turca di aree cuscinetto in territorio siriano fino a 30 km dal confine, dopo che le milizie curde siriane avevano combattuto come uniche truppe sul terreno contro l’Isis.

Quello che emerge chiaramente dall’intera vicenda è il ruolo di Bashar al Assad, rimasto saldo alla poltrona anche grazie al sostegno politico e militare di Vladimir Putin.

Oggi il presidente Assad è diventato l’interlocutore legittimo per tanti altri stati. Infatti, dopo 12 anni di esclusione, soprattutto su pressione degli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia saudita, dovrebbe prendere parte al vertice della Lega araba, che si terrà in Algeria nel marzo 2022. Insomma Assad è rimasto saldamente al potere mentre i suoi oppositori interni e internazionali hanno dovuto riconoscere lo status quo a Damasco.

Ma ciò che pesa sul futuro del paese sono le sanzioni europee in vigore dal dicembre 2011. Esse includono un embargo petrolifero e il congelamento degli asset della Banca centrale siriana entro i confini dell’Ue. Nessuno, però, a Bruxelles è in grado di rispondere alla domanda cruciale per il futuro dei siriani e dei milioni di profughi: fino a quando durerà questo stato di cose?

Yemen

C’è una guerra che si combatte in uno dei paesi più poveri del mondo e che ha dato vita a una crisi umanitaria senza precedenti. È il conflitto in Yemen che ha generato 3,6 milioni di sfollati interni, almeno 150mila vittime dirette e dove 400mila bambini sono in pericolo di vita per malnutrizione acuta grave. Senza contare che circa l’80 per cento della popolazione ha bisogno di assistenza: circa 23milioni di persone.

La guerra si protrae oramai da sette anni e vede due schieramenti ben definiti. Da una parte ci sono gli huti, i ribelli che hanno approfittato della crisi politica del paese e che nel 2015 hanno conquistato la capitale Sanaa, costringendo il presidente a scappare a Aden. E poi c’è l’Arabia Saudita che è intervenuto a difesa delle forze governative per proteggere i suoi confini meridionali. I primi sono sostenuti dall’Iran e da Hezbollah, mentre la coalizione araba formata anche dagli Emirati Arabi Uniti sono intervenuti a difesa del governo.

Dopo sette anni di guerra, gli huti risentono della crisi economica e umanitaria. Hanno cercato diverse azioni diplomatiche con paesi come Giordania e Oman, ma la situazione ora è in stallo e si continua a combattere soprattutto a est nella città di Marib. Il conflitto continua a preoccupare l’Arabia Saudita, che subisce continui attacchi a a obiettivi strategici per la monarchia, come quello contro l’azienda petrolifera nazionale e quello contro la base aerea King Salman.

La diplomazia non trova vie di uscita e forse la questione può arrivare a un’intesa nel momento in cui l’Iran raggiungerà l’accordo sul nucleare. In questo, la guerra in Yemen può essere una buona carta da giocare nel tavolo delle negoziazioni.

MALI

La Francia esce di scena in Mali. Lo scorso 14 dicembre, il generale francese Etienne du Peyroux, capo dell’operazione Barkhane, ha salutato il nuovo comandante maliano nella base francese di Timbuctù e dato formalmente il via all’uscita di Parigi dalla lotta contro al terrorismo che ha impiegato oltre 5mila soldati. 

Nel 2013 il presidente François Hollande ha dichiarato l’inizio di un intervento militare mirato a fermare l’avanzata della minaccia jihadista nel paese e in tutta l’area del Sahel. Ora comincerà una progressiva diminuzione che prevede solo un presidio a ridosso delle frontiere con Burkina Faso e Niger dove saranno attive le basi di Gao, Ménaka e Gossi.

Ma il ritiro, accolto come un evento positivo, non nasconde il sostanziale fallimento di un’operazione di peace keeping durata oltre otto anni. In meno di un decennio, circa 2 milioni di individui sono stati costretti alla fuga dalle proprie abitazioni in cerca di riparo in altre aree del Mali o nei paesi limitrofi, con una impennata di 330mila solo nel 2020, mentre si calcola che i morti abbiano superato la cifra di 15mila.

Ma la minaccia terroristica si è almeno conclusa? Il 2021 ha segnato la crescita nel numero di attacchi mortali messi a segno in gran parte da forze jihadiste o da bande armate in azione in Mali, in Burkina Faso e in Niger e, in parte minore, ma non risibile, da forze di governo. In nove mesi, dall’estate del 2020 alla primavera del 2021, si sono consumati ben due golpe. Un paese che deve presentarsi granitico contro una potenza temibile e fortemente radicata, non può permettersi instabilità.

TIGRAY – ETIOPIA

Si avvia a conclusione l’annus horribilis dell’Etiopia e forse anche il conflitto nel Tigray, iniziato nel novembre dello scorso anno quando il Tplf (Fronte Popolare di Liberazione del Tigray) organizzava e svolgeva  una tornata elettorale senza il permesso di Addis Abeba e prendeva possesso di caserme e armamenti dell’esercito regolare palesando l’intenzione di considerare la propria regione separata dal resto del paese.

Immediata è stata l’escalation militare avviata dal premier Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace nel 2019. In pochi mesi le regioni settentrionale sono sprofondate in uno stato di terribile conflitto e la popolazione in una condizione di gravissima emergenza umanitaria, è stata molta. Il bilancio del 2021 è drammatico.

Dei 6,5 milioni di abitanti della regione tigrina, 5,2 si trovano in stato di elevato bisogno alimentare. Gli sfollati interni superano abbondantemente i due milioni mentre quelli esterni, verso paesi storicamente più instabili dell’Etiopia come Sudan e Sud Sudan, aumentano di giorno in giorno. Il dato assume caratteristiche ancora più inquietanti se si considera che fino al 2019 l’Etiopia era tra i primissimi paesi al mondo per numero di profughi ospitati.

Ma le ultime settimane hanno segnato un netto cambio di rotta nel corso del conflitto in gran parte grazie all’entrata in campo di alcuni attori internazionali tra cui la Cina e la Turchia.

A Istanbul il 17 e il 18 dicembre, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha avuto un colloquio privato con il primo ministro etiopico, Abiy Ahmed. Dopo mesi di pessime notizie giunge proprio sul finire dell’anno quella che si attendeva da tempo.

Si apre, tra mille contraddizioni, dubbi, rancori, al netto di un numero enorme di morti, sfollati e di una vera e propria emergenza umanitaria, un primo, significativo spiraglio di pace. Il Tplf, è tornato a casa e ha deposto, per ora, le armi. Ha poi chiesto una no fly zone sul Tigray e un embargo sugli armamenti all’Etiopia e all’Eritrea – nel frattempo divenuta solida alleata di Abiy – e si è rivolto all’Onu per assicurarsi il ritiro delle forze amhara ed eritree dal Tigray occidentale.

Nagorno Karabakh

Che fine ha fatto il conflitto del Nagorno-Karabakh? Il 14 dicembre il tema della risoluzione del conflitto nel Nagorno-Karabakh è stato discusso in una telefonata tra il presidente russo Vladimir Putin e l’omologo francese Emmanuel Macron.

Il Cremlino ha informato l’Eliseo sui risultati raggiunti dopo gli incontri trilaterali tra i leader di Russia, Armenia e Azerbaigian il 26 novembre a Sochi. In dettaglio Mosca ha illustrato a Parigi l’attuazione delle misure per rispettare il regime di cessate il fuoco, per garantire il ritorno dei profughi, nonché il ripristino dei collegamenti commerciali, economici e di trasporto nella regione.

Grazie all’accordo del novembre 2020 sotto la regia della Russia, l’Azerbaigian ha recuperato i sette distretti contesi e parte del Karabakh. Dopo aver giocato un ruolo decisivo nel porre fine all’ultima guerra Nagorno-Karabakh, Mosca vuole la normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Armenia perché vuole l’apertura di linee di trasporto ed energetiche nella regione. L’azerbaigian è favorevole all’instaurazione di una pace duratura che possa favorire lo status quo. La palla è ora nella parte dell’Armenia.

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