Con chi si può dialogare per ottenere la pace? È lecito spingersi fino a negoziare con criminali della peggior specie? C’è chi lo ritiene impossibile sostenendo che non si può ricompensare dei delinquenti dandogli dignità di controparte politica. D’altra parte c’è chi sostiene che si negozia sempre con il nemico anche se si tratta di fuorilegge: lo scopo più alto è il bene della pace.

Ci sono molti esempi di trattative fatte con gruppi armati che si finanziavano con attività illegali come il commercio di droga: la frontiera tra criminalità organizzata e guerriglia è divenuta labile se non del tutto inesistente.

È ciò che pensa il nuovo presidente colombiano Gustavo Petro, il primo di sinistra nel suo paese, che ha sorpreso tutti offrendo una trattativa ai narcos. Dalla sua iniziativa sorgerà senza dubbio una forte polemica nazionale.

Trattare con i cartelli 

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I narcos colombiani sono legati agli ex paramilitari, tra i più feroci protagonisti della lotta anti-guerriglia e del tutto contrari alle trattative con le Farc (Forze armate rivoluzionarie di Colombia) che avevano portato a un accordo, negoziato a Cuba tra il 2012 e il 2016 all’epoca del presidente Juan Manuel Santos.

La Colombia non è l’unico caso in cui la controversa questione se trattare o no con la criminalità è divenuta un tema politico. Ad esempio in El Salvador si è tentato una strada simile con le maras, le gang che terrorizzano il paese e vivono di traffico di droga. Vari tentativi erano sfociati in una serie di tregue senza però mai giungere a un accordo definitivo.

I vari governi che si sono succeduti nel piccolo paese centroamericano (con i tassi di violenza più alti di tutta l’America Latina, assieme a Honduras e Guatemala) non sono riusciti a elaborare un consenso nazionale attorno a tale delicata questione.

Così a periodi di calma sono seguiti tempi di forte violenza, accompagnati da strascichi polemici su chi fosse responsabile della rottura della tregua. Dopo un’efferata raffica di più di 80 omicidi avvenuta nel febbraio di quest’anno, l’attuale presidente salvadoregno Nayib Bukele ha optato per lo stato di eccezione, sospendendo le garanzie costituzionali e facendo arrestare circa 50mila mareros o sospetti tali.

Le organizzazioni per i diritti umani e le famiglie gridano allo scandalo per la cieca repressione ma il governo risponde osservando che in Salvador il luglio 2022 è stato il primo mese senza assassinii da vari decenni.

La via di Petro

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Dal canto suo Petro ha scelto la strada opposta. Crede che la popolazione colombiana sia stremata da oltre mezzo secolo di violenze e che l’accordo di pace negoziato a Cuba con le Farc comuniste vada completato con un passo ulteriore: aprire colloqui con il clan del Golfo, il più forte gruppo di ex paramilitari divenuto il più importante cartello della droga del paese.

Durante la sua cerimonia di installazione ha fatto un’offerta di tregua a cui il clan ha reagito positivamente: «Decretiamo una cessazione unilaterale delle ostilità –  si legge nel loro comunicato – come espressione di buona volontà nei confronti del governo».

L’arresto temporaneo delle ostilità permetterà di costruire un quadro negoziale appropriato. Come ci si poteva aspettare fortissime sono state le critiche alla decisione del presidente, accusato di offrire un riconoscimento ufficiale ad un cartello della droga, cioè a dei criminali comuni legati alla rete globale del narcotraffico. Ma Petro è un realista: è consapevole che il clan riveste già un ruolo “politico” nel paese, rappresentando un vero e proprio contropotere nei confronti dello stato colombiano.

Si tratta di una questione alquanto controversa. Dieci anni fa la maggioranza dei colombiani non era convinta che si potesse negoziare con le Farc, le quali si erano macchiate di molti crimini, come i sequestri e lo stesso narcotraffico. I colombiani avevano respinto l’accordo di pace votando no al referendum dell’ottobre 2016 organizzato dal presidente Santos per ottenere l’approvazione popolare. Di conseguenza l’accordo era stato rinegoziato rendendo la sua implementazione molto più difficile e provocando il malcontento di una parte dei guerriglieri. Anche la chiesa colombiana si era messa contro la trattativa cubana, assieme ad un ampio segmento della società civile organizzata. L’idea diffusa era che la pace con le Farc non valesse quanto la sovranità dello stato, calpestata e sminuita da una trattativa coi “terroristi” che tanto male avevano inflitto al paese. Santos – un ex ministro della difesa di destra – tuttavia pensava che la pace valesse molto di più e che non avesse prezzo.

Oggi il presidente Petro sembra dire: se un presidente di destra ha negoziato coi guerriglieri comunisti, io posso negoziare con gli ex paramilitari, legati alla destra e alla élite proprietaria del paese. Per ora il clan/cartello ha reagito bene: intravvede la possibilità di essere definitivamente consacrato come protagonista politico. Ovviamente c’è da chiedersi cosa ne sarà del traffico di droga: cogliere l’opportunità per togliersi di dosso l’etichetta da gangster significa rinunciare a tale commercio, che ha reso potente il cartello.

Opposizione fra civili

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È logico aspettarsi che non tutti saranno d’accordo: come accadde con le Farc, anche con il clan del Golfo si tratta di una vicenda difficile e delicata che potrebbe durare anni. Chi resta escluso dai ragionamenti sull’opportunità o meno di aprire negoziati con chi si ribella all’autorità dello stato sono i civili. Spontaneamente molti sentono che si tratta di una partita di scambio che passa sopra le loro teste senza che venga chiesto alcun parere. Ne risulta che chi detiene la forza delle armi (sia legalmente che illegalmente) negozia; chi non le ha subisce il risultato del negoziato.

Ciò provoca risentimento: com’è possibile che lo Stato, che è di tutti, si debba piegare a trattare con chi ha violato (ripetutamente e brutalmente) la legge? Sembra giusto ma è noto come tale posizione renda difficile la trattativa in molti scenari e rende endemici i conflitti. La stessa legislazione, nazionale o internazionale, contro l’impunità e favorevole alla non prescrittibilità di certi reati ha tali effetti dei quali tener conto.

Il nodo del negoziato

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Di questi tempi il dibattito sulla pace e sulle sue condizioni è molto vivace, come nel caso della guerra in Ucraina: sembra che negoziare sia considerata una scelta errata o debole mentre al contrario si debba preferire il terreno del conflitto militare anche a costo di immensi sacrifici. Quanto vale la preservazione della vita che solo la pace garantisce? Ci si chiede cosa si può sacrificare in nome delle proprie ragioni. Si tratta di un passaggio molto delicato: per cosa vale la pena negoziare e per cosa vale la pena combattere? La risposta non può essere semplicistica, né emotiva.

Nel caso colombiano il presidente Petro pensa che egli debba fare un tentativo proprio nei confronti di tutto ciò che simboleggia l’opposto di quello che lui stesso rappresenta. Petro è uomo di sinistra ed è stato un guerrigliero del M19. Eppure egli tende una mano a miliziani, paramilitari e narcotrafficanti di destra. Lo fa in nome del bene superiore della pace. «La guerra alla droga è fallita», ha dichiarato Petro, «in 40 anni ha provocato la morte di un milione di latinoamericani, ha rafforzato le mafie e indebolito gli stati. Ha spinto i governi a commettere crimini, ha fatto evaporare l’orizzonte della democrazia. Vogliamo aspettare che un altro milione di latinoamericani venga ucciso o finalmente imboccare una rotta diversa?».

Davanti ad ogni conflitto ci si deve porre tali domande difficili che dimostrano anche l’inefficacia della guerra. Per chi crede nella democrazia è essenziale chiedersi se sia giusto continuare a usare le armi oppure se la pace sia il bene supremo da conservare o recuperare al più presto con il metodo del dialogo. Un nodo difficile da sciogliere, come sappiamo. 

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