Il nome “Congo” significa paese in lingua kikongo, una delle tante parlate in quelle zone: un paese immenso, attraversato dal grande fiume omonimo e dai suoi affluenti, la più grande riserva verde dopo l’Amazzonia, pieno di risorse naturali e minerarie che tutti cercano di predare. È «il cuore di tenebra» fin dai tempi di Joseph Conrad: luogo misterioso che scatena le passioni più estreme, paura, avidità, conquista, repulsione. Detiene il triste primato delle febbri emorragiche: ebola è iniziato qui e qualcuno crede anche l’Aids.

È l’unico stato africano che fu colonizzato non da una potenza straniera ma da una compagnia privata, appartenuta a re Leopoldo del Belgio. Un’avventura bestiale fatta di sfruttamento esasperato e di tanto sangue. I colonizzatori più atroci, resi folli da un’estrema bramosia di ricchezza che solo l’appropriazione privata di esseri umani può provocare: ammazzarono a volontà, mutilarono, ridussero in schiavitù. Una storia che si ripete fino ad oggi. Fu l’incrocio mortale tra colonia, schiavismo e apartheid, per sempre impresso nelle carni e nello spirito del popolo.

Dal colonialismo a Mobutu

Alla conferenza di Berlino del 1884-85, dove fu spartito il continente, Leopoldo manovrò abilmente per assicurarsi la sua proprietà e avere mano libera. Non durò molto: le spese erano talmente alte che convenne scaricarle sulle spalle dello stato belga. La situazione migliorò di poco: il Belgio non fu mai davvero in grado di sostenere una colonizzazione così ampia e gravosa. La decolonizzazione divenne una tragedia: l’assassinio atroce del premier Patrice Lumumba, voluta dall’Occidente, rischi di secessione, interferenze diffuse, colpi di stato, caos.

Una delle prime operazioni di pace Onu finì male: in un controverso incidente aereo morì il segretario generale delle Nazioni unite Hammarskjöld e anche l’Italia vi perse 13 aviatori a Kindu sempre nel 1961. Dopo molti intrighi emerse Mobutu Sese Seko, un leader bifronte: crudele dittatore ma anche artefice dell’autenticità africana e dell’orgoglio continentale. Il Congo cambiò nome in Zaire e per un po’ sembrò poter diventare una vera potenza d’Africa.

Lo Zaire voleva essere l’Africa vera, senza concessioni alla cultura dell’ex colonizzatore. E nelle menti africane lo divenne: per anni Kinshasa fu la mecca di tutto ciò che voleva essere autenticamente africano, la vera «fonte» dove si abbeverarono scrittori, musicisti, artisti e poeti. Mohammed Alì la scelse per riprendersi il titolo nel 1974.

Ancora oggi, dopo il declino, ogni africano non ha difficoltà ad ammettere che vi si compone la migliore musica del continente. Nella sofferenza i congolesi hanno maturato una forte identità culturale, musicale e religiosa. Il Congo è la culla delle prime chiese afro-cristiane libere, come i discepoli di Simon Kimbangu oggi riconosciuti dal Consiglio ecumenico di Ginevra: un cristianesimo nero per i neri. Malgrado i vanti dell’autenticità, Mobutu seguitava a trafficare con gli occidentali, li corrompeva e veniva da loro corrotto: in palio sempre le immense ricchezze del Congo. Come un cancro la corruzione dilagante associata al dispotismo, consumò tutto dal di dentro: un’intera classe politica predatrice che dissanguò il paese, vendendolo pezzo a pezzo.

Nel marzo 1996, al primo tentativo, le milizie ribelli di Kabila senior, armate dal Ruanda del post-genocidio (e dall’Uganda), affondarono come nel burro dentro il grande Stato, attraversandolo da parte a parte in pochi mesi. Assurdo vedere il più piccolo stato africano conquistare il più grande. Mobutu, il «Leopardo», fuggì ignominiosamente in Marocco morendo l’anno successivo. Desiré Kabila non durò a lungo: ruppe con gli alleati ruandesi (sempre a causa dell’orgoglio nazionale) e finì assassinato nel 2001 da un membro del suo staff.

La grande guerra d’Africa e il Kivu

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Fino al 2019 il Congo (che intanto aveva ritrovato l’antico nome) fu diretto da suo figlio, Joseph Kabila. La guerra riprese peggio di prima: l’hanno chiamata la «grande guerra d’Africa» o la «guerra mondiale africana», che ha prodotto una serie infinita di conflitti secondari tra i quali quello del Kivu. La particolarità della grande guerra africana è che vi combatterono numerose nazioni africane, oltre a decine di gruppi armati, molti dei quali rimasti attivi.

Per decenni il Congo è stato la palestra di incredibili razzie. Si è trattato essenzialmente di una «guerra contro i civili» senza battaglie campali ma con una corsa all’accaparramento di terre e risorse, assieme ad una generalizzata violenza diffusa contro i civili.

Le cifre sembrano assurde: si stimano cinque milioni i morti fino ad oggi. La repubblica democratica del Congo attuale (Rdc) è stata anche il teatro della più grande operazione di pace dell’Onu: la controversa missione Monusco (prima Monuc), costata più di un miliardo di dollari l’anno con l’impiego di circa 20.000 uomini.

Dopo le ripetute insistenze della comunità internazionale, il presidente Kabila jr. rinunciò a ripresentarsi, ottemperando così alla lettera della Costituzione. Il governo non volle l’aiuto internazionale (nemmeno quello dell’ONU come nel 2006) ma scelse di organizzare l’elezione da sé.

Dal canto suo la Conferenza episcopale congolese (la più forte e organizzata d’Africa assieme alla nigeriana) mise a diposizione circa 40.000 persone per sorvegliare lo scrutinio. In Congo la Chiesa cattolica possiede una reale influenza: è unita e aveva già svolto un ruolo decisivo nelle fasi di transizione post-Mobutu.

Le elezioni del 2019

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Nel corso del 2016, davanti all’ennesima impasse politica, la stessa Conferenza episcopale mediò l’accordo di San Silvestro del 31 dicembre che portò alla costituzione di un governo sotto la guida di un premier proveniente dai ranghi dell’opposizione.

Le elezioni del 2019 furono il risultato di tale processo, vinte da Félix Tshisekedi, il figlio di Etienne, l’oppositore storico di Mobutu ed effimero primo ministro della la conferenza nazionale sovrana. Malgrado le solite contestazioni sui risultati, una nuova epoca sembrava aprirsi per la Rdc. Ma la guerra nei due Kivu non terminò e ora sta producendo effetti distruttivi per tutto il paese, forse irreversibili. Sembra chiaro che le manipolazioni si sono intrecciate nel corso del tempo, divenendo del tutto inestricabili.

Lo stesso Tchisekedi ha tentato di strumentalizzare la tensione con il Ruanda cercando alleanze anche negli Stati Uniti, mediante i movimenti pentecostali. Dal canto suo il Ruanda non è stato da meno, continuando a sfruttare la presenza di milizie amiche (come l’M23) per garantirsi la produzione di terre rare che non possiede sul proprio territorio. Inoltre Kigali da sempre punta a creare una zona-cuscinetto tra le due frontiere, visto il caos di milizie etniche che rende il confine poroso e penetrabile.

Non è la prima volta che i filo-ruandesi occupano Goma: successe già nel 2012. Ma questa volta la comunità internazionale pare chiudere entrambi gli occhi purché il Ruanda garantisca finalmente stabilità e pace nella regione. La guerra in Ucraina insegna che le frontiere ormai non sono più così intangibili. Tuttavia voci sostengono che l’M23 voglia proseguire fino a Bukavu, capitale del Kivu Sud e forse ben oltre, sarebbe un errore, inaccettabile per tutti. Mentre Goma è popolata anche da ruandofoni e ruandesi, Bukavu ha tutta un’altra storia e in passato ha già dimostrato di sapersi ribellare all’egemonia di Kigali.

Kinshasa poi ha lasciato brutti ricordi ai ruandesi. Resta il fatto che i congolesi, seppur pressati da tale «crisi multidimensionale» come usano dire, non vogliono arrendersi né alla guerra né al caos: la società rimane in continua e permanente ebollizione creativa. Come scriveva Sony Labou Tansi, poeta e autore congolese tra i più conosciuti, il Congo «è una gravidanza che partorirà».

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