Cinquant’anni fa un gruppo di campioni del tennis ha fondato il suo sindacato, registrato il marchio come Atp (associazione tennisti professionisti) e chiesto aiuto a uno scienziato della General Electric per costruire una classifica basata non più sul gusto e i pareri di giornalisti specializzati, come capitava fino al 1972, ma su criteri matematici. Costui ha fatto lavorare un gigantesco mainframe soprannominato Blinky (il lampeggiatore) per mesi e l’anno successivo, 1973, la macchina ha sputato il primo ranking ufficiale Atp.

Ma questa è un’altra storia, di perequazione. La storia di oggi è invece di sperequazione e riguarda sempre l’Atp, tuttora vivente e governata da un ex giocatore italiano, l’intraprendente Andrea Gaudenzi. L’associazione si è trovata in ambasce per la decisione, da parte del torneo di Wimbledon, di non accettare iscrizioni da parte di giocatori russi e bielorussi.

«Nelle circostanze di tale aggressione militare ingiustificata e senza precedenti – si legge nel comunicato dello scorso 20 aprile, ovviamente dedicato all’invasione dell’Ucraina – sarebbe inaccettabile che il regime russo possa trarre vantaggio dal coinvolgimento di alcuni giocatori nei Championships. È quindi nostra intenzione, con profondo rammarico, rifiutare le iscrizioni di tennisti russi e bielorussi». Quindi: succede che il torneo più famoso del mondo, in partenza il prossimo 27 giugno, con uno strappo non concordato ha stabilito chi far giocare e chi no.

Il presidente del comitato olimpico, Thomas Bach, ha stigmatizzato la scelta perché finisce per discriminare atleti in ragione del loro passaporto, punendo ragazzi che gareggiano a titolo individuale. E ha ragione. Tra loro, peraltro, non ci sono solo peones del tennis ma il numero uno del mondo Daniil Medvedev, il numero otto Andrey Rublev, la numero cinque Aryna Sabalenka, la numero tredici Daria Kasatkina.

Nel secondo dopoguerra

Un provvedimento draconiano analogo era stato preso solo un’altra volta, nel 1946, quando Wimbledon – dopo sei anni di sospensione causa conflitto – aveva negato l’ingresso ai giocatori dell’Asse, quindi italiani, tedeschi e giapponesi. Allora, le ceneri della guerra mondiale scottavano ancora troppo. Ma qui? La Russia non è in guerra con la Gran Bretagna. Né i tennisti sono rappresentanze nazionali, men che meno in uno sport inter-nazionale per definizione, una disciplina nella quale il fan italiano di Federer rimane tale anche quando affronta Berrettini.

Eppure, niente da fare: Wimbledon ha fatto di testa sua. Quando è stato chiesto al comitato organizzatore se non si fossero considerate ipotesi intermedie rispetto al ban, la risposta è stata che chiedere ai tennisti russi di leggere o firmare una dichiarazione contro la guerra avrebbe potuto mettere a rischio le vite dei loro affetti. Che è una considerazione ragionevole ma avrebbe dovuto condurre, semmai, a un altro genere di risoluzione: se il Roland Garros da poco concluso, e gli Us Open in arrivo a fine agosto, si accontentano di passare del bianchetto sulle bandiere dei giocatori russi in tabellone e a non suonare il loro inno, né mostrare la loro bandiera, perché procedere all’esclusione? Perché riesumare un precedente usato solo per i postumi della lotta ai regimi di Hitler e Mussolini?

Solidarietà tennistica

Se Wimbledon ha fatto un passo falso, però, l’Atp è riuscita a peggiorare la situazione. Il caso vuole che proprio nel 1973, a sindacato appena nato, il giocatore Nikola Pilic, yugoslavo fosse stato convocato per disputare un incontro di Coppa Davis contro la Nuova Zelanda. Lui, però, avendo già firmato un contratto, aveva preferito giocare un torneo con un bel montepremi a Las Vegas. Nove mesi di sospensione, Wimbledon compreso. Settimane di battaglie legali, tutte inutili.

La reazione dell’Atp era stata esemplare: nonostante tutti ci rimettessero qualcosa, alcuni moltissimo – per esempio Stan Smith, campione in carica, che difatti aveva votato contro – per ritorsione non si erano presentati al torneo un’ottantina di campioni già iscritti all’associazione. Tutti per proteggere Pilic, un tennista forte ma neanche fortissimo. Tra i rarissimi crumiri, Ilie Nastase – a quanto risulta obbligato dal regime rumeno a sostenere le ragioni della Yugoslavia – e lo svedese Bjorn Borg, ai tempi minorenne, ancora troppo giovane per la tessera sindacale. Quell’edizione bislacca del torneo era finita, guarda il caso, con un russo in finale, Alex Metreveli, e un campione cecoslovacco, Jan Kodes.

Ciò che non si capisce è per quale ragione, cinquant’anni fa, un sindacato in fasce fosse riuscito a mettere d’accordo i campioni e a decidere una mossa tanto radicale contro il tempio del tennis, mentre la moderna e rodatissima Atp del 2022, invece di alzare la voce, abbia sì e no squittito.

Cosa è mancato, per assumere una decisione analoga a quella del 1973? La risposta sintetica è: tutto. In prima istanza, va rimarcato, il dialogo e la solidarietà tra colleghi: salvo eccezioni, il tennis è uno sport di monadi, nel quale non va tanto di moda la solidarietà quanto il mors tua, vita mea. Rispetto al 1973, poi, il tennis è diventato uno sport di multinazionali – i primi dieci giocatori al mondo fatturano come una piccola o media impresa e la loro fama è planetaria – e contano più i nomi un manipolo di superstar che non le voci di tutti gli altri professionisti messi insieme.

Presi ciascuno dalle proprie faccende, i grandi hanno evitato il più possibile l’argomento. Djokovic, quello con l’animo più sindacalizzato  tra i campioni, ha definito sbagliata la decisione del torneo; Nadal, dopo il trionfo a Parigi, su Wimbledon e i russi ha balbettato qualche frase di circostanza, di comprensione per entrambi. Di guidare una protesta forzuta, per la carità, non se ne è manco parlato. Anche perché l’escluso Medvedev, a dispetto della classifica, rispetto al trio Feder-Nadal-Djokovic sul mercato vale ancora come il due a briscola.

Troppe teste, nessuna rinuncia

Dopodiché, a latitare è stato il coraggio: ritirare gli iscritti da Wimbledon avrebbe creato un incidente insanabile tra i giocatori e il più influente degli Slam. Un evento che avrebbe costretto, magari, a ripensare i rapporti di forza in una realtà nella quale convivono troppe teste e troppe idee. C’è la federazione internazionale, con egida sulla Coppa Davis; ci sono i quattro Slam, ciascuno dei quali fa ciò che gli pare, dal formato del punteggio alle regole di ingresso fino alle date, come era capitato con il Roland Garros 2020, spostato d’imperio in autunno per saltare il lockdown e garantire gli introiti. E poi, sì, c’è l’Atp che organizza, in combutta con i proprietari degli altri tornei, il suo Tour. E che però non riesce a rappresentare efficacemente tutti i suoi iscritti, stante la sproporzione immane – di guadagni, di peso, di immagine – tra le superstar e tutti gli altri suoi soci.

Così, si è intrapresa la strada del compromesso al ribasso. Se a Wimbledon non fate entrare i nostri tesserati russi e bielorussi, noi vi togliamo i punti validi per la classifica mondiale. Un escamotage cerchiobottista: da un lato, non si potrà dire che non si è fatto nulla per rispondere alla prepotenza degli inglesi. Dall’altro, si provvede a una insensata cancellazione di punti che farà precipitare in classifica chi, lo scorso anno, a Wimbledon ha brillato – Novak Djokovic e Matteo Berrettini su tutti – ma che al torneo (e al suo vincitore) non creerà alcun vero danno, giacché lo status di torneo dello Slam rimane intatto.

Nessuno rinuncerà a partecipare nonostante l’assenza di punti: difatti, ai giocatori giustamente arrabbiati perché toccherà a loro scontare la ritorsione perdendo posizioni nel ranking, Wimbledon ha già risposto gonfiando ulteriormente il già ricchissimo montepremi. Oltre 40 milioni di sterline, un bottino mai visto. Cinquantamila sterline per chi perde subito, un milione al finalista e due al vincitore. Un bel succedaneo di un pacco di fazzoletti per Matteo Berrettini, che perderà un posto tra i primi dieci giocatori del mondo.

Russi e bielorussi torneranno in lizza per uno Slam agli Us Open di New York a fine agosto. Loro sì, Novak Djokovic no: a proposito di coerenza, in Australia è stato accolto e poi espulso, a Parigi ha potuto giocare liberamente, negli States non potrà perché non è vaccinato. Ma anche questa è un’altra storia.

© Riproduzione riservata