La leadership politica e le sue declinazioni sono da sempre al centro dell’analisi politica e delle incarnazioni che l’hanno realizzata. Potremmo dire da Giulio Cesare fino ai presidenti e leader delle democrazie contemporanee, Thomas Woodrow Wilson, Franklin Delano Roosevelt, Luigi Einaudi, Charles de Gaulle, François Mitterrand, passando per quelli dei sistemi non democratici, Lenin, Benito Mussolini, Adolf Hitler, Fidel Castro, per citarne alcuni.

E non è un caso poiché da essa dipende la capacità di comporre idee, interessi, contraddizioni in un progetto di governo realizzabile per la società.

Oggi le nostre democrazie vivono una fase difficile – di post-modernità per alcuni – di assestamento in una modernità complessa che chiede risposte per altri, e la sopraggiunta pandemia ne ha accentuato i problemi e le fragilità preesistenti: crisi della rappresentanza politica, sistemi partitici frammentati, indebolimento dei soggetti di intermediazione, domande sociali emergenti, problemi del lavoro e dell’occupazione che si traducono in un disagio sociale crescente più o meno in vari paesi europei e nel prosperare dei partiti populisti variamente declinati.

Scenari simili

L’Italia e la Francia sembrano incarnare questo processo in maniera paradigmatica. Pur in contesti istituzionali diversi, hanno a riguardo scenari simili e sembrano scegliere strategie e strumenti che si assomigliano.

In Italia dalla Lega, estrema destra, a Forza Italia, destra moderata, ai Cinque stelle, espressione di un populismo radicale, abbiamo un ampio ventaglio di formazioni populiste che in periodi diversi sono state al governo e oggi lo sono nel governo del premier Mario Draghi.

In Francia i populisti di Marine Le Pen (e i nuovissimi di Éric Zemmour) non sono al governo, ma condizionano fortemente il dibattito su temi cruciali e hanno un peso non piccolo sulla scena politica tanto da sfidare il presidente uscente alle elezioni presidenziali.

Questo suggerisce alcune riflessioni sul rapporto nuovo, inedito, fra populismo e tecnocrazia. In passato i populisti, in Italia, in Francia, in Spagna, in Austria, hanno usato la loro critica più aspra contro il potere tecnocratico, la finanza internazionale, la parassita burocrazia europea chiusa nel palazzo di vetro ai danni del popolo indifeso.

Il modello francese

Oggi il vento è cambiato. Marine Le Pen ha costruito un partito “normalizzato” sfrondandolo degli estremismi paterni e tuona meno contro la “mondialisation” e le élite della finanza internazionale.

Il presidente Emmanuel Macron, da parte sua, esponente dell’élite bancario-finanziaria, arrivato al potere con un discorso duro sulla classe politica tradizionale da lui definita come “étoiles mortes” (“stelle morte” ndr) che non emanano più luce, strizzando l’occhio al populismo, ha poi ripreso l’abito della competenza, della “expertise” tecnocratica ed ha annunciato alcune riforme.

Due innanzitutto, per candidarsi alla sua successione: la riforma dell’Ena (Ecole Nationale d’Amministration), antico vivaio dei boiardi di stato, criticata da molti per il tratto marcatamente elitario, prefigurandone lo snellimento che promette molto ma cambia poco nella sostanza; l’appello insistito al popolo francese perché riprenda il suo antico coraggio e mostri le sue virtù di fronte alle difficoltà del presente, cancellando la postura distaccata che lo aveva caratterizzato per quasi tutto il suo mandato, mostrandosi vicino alla gente, facendo  pubblica ammenda dei suoi errori e riprendendo alcuni toni dell’alfabeto populista per acquisire consenso e neutralizzare la destra estrema populista.

Se è vero che il presidente francese esprime un “potere di incarnazione”, Macron in questo caso cerca di  incarnare, ricomprendere in sé, il potere della tecnocrazia, ossia il volto delle società complesse, della innovazione, del saper navigare nel mondo globale e, nello stesso tempo, quello suadente del leader empatico col suo popolo, capace di dissotterrare eroi e gesta passate, un’identità antica che non si svende, per guidarne le sorti. E non perde ogni occasione propizia per farlo in occasioni ufficiali e non.

Il modello italiano

In Italia assistiamo da un anno a una alleanza di governo che non pare scelta contingente, ma indica, mi pare, una precisa linea di tendenza.

Il premier Mario Draghi, giunto al potere in una situazione di crisi politico-sociale, con un sistema partitico litigioso, frammentato, quindi in preda all’immobilità, sembra incarnare questo processo in maniera paradigmatica.

Infatti ha integrato nella coalizione di governo forze politiche diverse, talora opposte, dal Pd a Leu, ai populisti estremi della Lega e moderati, come Forza Italia, agli ex scalpitanti Cinque stelle, tenendoli insieme grazie al prestigio e all’autorevolezza che gli appartengono, al suo peso nelle istituzioni europee.

Per un reciproco bisogno di legittimazione potremmo dire che addomestica i “furori” di Salvini e le velleità dei pentastellati. Questi usano il mantello protettivo della partecipazione a un governo autorevole e Draghi aggiunge veste umana e vicina alla gente all’immagine di un tecnocrate freddo e distante, come da molti viene percepito, a dispetto di una formazione personale e accademica che rimangono radice importante nella sua storia.

Molti gli esempi che si possono fare. Le aperture di molte attività economiche nella primavera scorsa in una situazione difficile per la pandemia – «con rischio calcolato», come il premier ha precisato – hanno accontentato i populisti scalpitanti con un occhio ai problemi dell’economia e al nostro debito. L’attenzione ribadita ai giovani, agli strati sociali più disagiati, alle donne, a inuguaglianze da attenuare, accolgono le istanze della sinistra. Ma ciò che è costante è un richiamo all’unità e alla responsabilità delle persone, di quell’insieme di individui e tradizioni e storia che fanno un popolo.

Dalla finanza alla politica

Cos’hanno dunque in comune Draghi e Macron, tessitori di un esperimento nuovo che cerca di coniugare tecnocrazia e populismo? Molte cose, a ben riguardare, pur nelle specificità e differenze.

Essi vengono da uno stesso processo di formazione, gli studi di economia, ed erano entrambi estranei alla politica quando sono arrivati al potere. Hanno scelto di impegnarsi nella finanza anche se con un curriculum differente. Mario Draghi si è formato sotto la guida preziosa di Federico Caffè, economista keynesiano e accademico molto conosciuto in Italia, convinto assertore dell’importanza dell’intervento dello stato per correggere le dure leggi del mercato e diminuire le disuguaglianze sociali.

Draghi si è nutrito di questi principi e ha perfezionato la sua formazione al Mit di Boston sotto la guida di Paul Samuelson e Franco Modigliani, due economisti di  alto prestigio e di orientamento keynesiano. Ha iniziato la sua carriera accademica e ha insegnato per alcuni anni a Padova e Firenze. Ha assorbito le teorie che puntavano, come Caffè diceva spesso, alla «civilizzazione del paese» e ha cercato di applicarle, quando ha scelto di dedicarsi alla finanza, nei vari ruoli ricoperti, orientando le scelte verso una sorta di «economia sociale di mercato». Tutto questo è il prodotto di un incrocio fra la sua formazione giovanile fortemente segnata dal solidarismo cattolico e gli insegnamenti della filosofia economica di Caffè.

Macron, prima di arrivare al potere era anche lui estraneo alla politica (salvo un passaggio di un anno nel Partito socialista e la sua esperienza nel governo di François Hollande). Anch’egli ha una formazione cristiana e ha studiato nel collegio dei gesuiti di Amiens, cosa che ha lasciato una profonda traccia nella sua personalità.

Egli pure viene da alti studi economici e dal settore dell’alta finanza e ha coltivato una filosofia del fare, un pragmatismo che gli ha permesso di vincere la competizione per la presidenza francese nel 2017, spazzando via gli avversari, lui che era l’imprevisto, senza una storia politica, senza un partito se non il movimento En Marche da lui creato. Un Centauro moderno, metà movimento metà partito per incoronarlo re eletto.

Sia Draghi sia Macron sono arrivati al potere in momento di crisi acuta della società in una fase di trasformazioni nell’assetto economico e politico mondiale e nella tenaglia della crisi pandemica. Entrambi cercano strumenti nuovi in una realtà in cui le ragioni della tecnocrazia e quelle del populismo sembrano poter convergere e indicano una via possibile per rifondare la forma democratica.

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