Prima di arrivare a Peng Shuai, una nota introduttiva. Lo sport professionistico ha iniziato la sua transumanza verso est non appena il mondo occidentale non è più stato in grado di garantire le crescenti parcelle richieste dai vertici di una moltitudine di discipline.

Il Gran Premio del Bahrein si corre là, da quasi vent’anni, presumibilmente non per ragioni turistiche; pazienza se, a Manama, chi protesta per lo stato di polizia imposto dalla famiglia reale Al Khalifa finisce all’ergastolo.

Nel weekend appena passato, hanno chiesto a Lewis Hamilton se si sentisse a suo agio a correre a Jeddah, Arabia Saudita, dove si discrimina, reprime e censura in allegria, tanto che Reporter senza frontiere classifica l’emirato in zona retrocessione per le libertà di espressione.

«No. Ma non è stata una mia scelta, lo ha deciso il mio sport, che sia giusto o no. Quello che posso fare io è cercare di diffondere consapevolezza su alcuni temi». Ha corso con un casco arcobaleno, per ricordare che l’omosessualità non andrebbe contemplata dal codice penale.

Il Qatar avanzò una anomala candidatura per i prossimi mondiali di pallone nel 2010: curiosa perché mancavano non tanto la storia calcistica, ma anche tutto il resto: stadi, infrastrutture di servizio, sicurezza, clima favorevole, esperienze pregresse. Non i soldi per sostenersi. Difatti, vinse.

Portandosi dietro un codazzo di scandali per aver, diciamo così, esercitato il suo potere persuasivo – aiutandosi con quella cosa che non olet - sulle federazioni più povere. Dopodiché, le arene promesse sono state effettivamente tirate su: peccato sia stata impiegata manovalanza irregolare e sottopagata, con un computo di morti e feriti mai confessato.

Uno spiacevole effetto collaterale dell’assenza di legislazione sulla dignità del lavoro. Quindi si giocherà, nel 2022, un mondiale bislacco, a cavallo tra novembre e dicembre, che è come sistemare il cenone di Capodanno a metà luglio: perché in estate, a Doha e dintorni, si è appreso con stupore che si frigge dal caldo.

Come nella vicina Dubai: ma non c’è problema, perché da anni esiste uno ski-dome, un centro sciistico al coperto per lo slalom gigante mentre fuori si fa il bagno, così bello che la federsci internazionale la scorsa estate ha incluso l’Arabia Saudita nella sua grande famiglia, e non è uno scherzo. Di posti in cui nevica senza cannoni, nel mondo, ne esisterebbero in abbondanza.

Solo che mancano i soldi necessari per farsi valere. In gergo si chiama sportswashing: investire miliardi di dollari in eventi sportivi di valore internazionale per mostrare il lato bello di un regime autocratico, ed è una disciplina largamente praticata.

Ora: Steve Simon, amministratore delegato della Wta, che è una sorta di sindacato delle tenniste professioniste, ha annunciato la sospensione di tutte le attività agonistiche in Cina, come segno di protesta per il caso sollevato dalla sparizione della tennista Peng (cognome) Shuai (nome, là è uso scrivere per primo il nome di famiglia).

L’ex numero uno del mondo in doppio, lo scorso novembre aveva usato un social network per raccontare delle violenze sessuali subite per mano dell’ex premier Zhang Gaoli e, da quel giorno, di lei si erano perse le tracce. Sparita dal mondo del visibile.

Il suo post su Weibo era stato cancellato dalle autorità e l’atleta si era fatta da parte «per riposarsi», aveva spiegato un giornale cinese. Solo che la protesta è montata al punto tale che neanche due videochiamate - combinate dal governo - di Peng Shuai col presidente del Cio Thomas Bach, nelle quali la tennista confermava di essere sana, salva e pure stupita dalla presa di posizione della sua associazione, sono riuscite a impedire il provvedimento più drastico che la Wta potesse adottare.

Anche perché il Cio ha bisogno come l’ossigeno del denaro di Pechino per le Olimpiadi invernali in partenza tra poche settimane, e tutto desidera tranne uno scandalo a ridosso dei Giochi che possa invogliare qualche Paese a proteste ufficiali o financo boicottaggi. E quelle due conversazioni non hanno convinto nessuno.

Una parte del pubblico ha salutato questa iniziativa come una rivoluzione nel mondo dello show business: finalmente uno sport si ribella all’inaccettabile e rinuncia addirittura a competere, pur di non calpestare i diritti fondamentali di un suo membro.

Per fare due conti, però, se davvero il tennis femminile facesse a meno della Cina, dovrebbe dire addio all’accordo decennale per ospitare a Shenzen le Wta Finals, la versione femminile del torneo organizzato a quest’anno a Torino. Che, da solo, vale 140 milioni di dollari.

Prima della pandemia, la Cina ospitava nove tornei Wta, con un fatturato annuo di 30 milioni di dollari. Più 120 versati per trasmettere per dieci anni i match sulla piattaforma di streaming iQiyi. Tolto quel denaro, il circuito Wta non avrebbe di che sfamare le sue atlete.

E se rivolta doveva essere, difatti, è rimasta voce nel deserto. Le altre due istituzioni del tennis mondiale, la Itf (federazione internazionale tennis) e la Atp (l’omologo maschile della Wta) non hanno spalleggiato la decisione che Simon ha dovuto prendere, costretto da un imbarazzo crescente per le fallite mediazioni col governo cinese.

Si sono limitate a due noterelle ufficiali dal sapore democristiano, in cui si parla vagamente di «sollecitare una rapida soluzione del caso» e di «supportare tutte le iniziative utili a tutelare la salute di Peng Shuai», senza neanche mettere per iscritto la parola Cina.

Tradotto: ai soldi di tutti i regimi del globo, così generosi con noi, non possiamo rinunciare. Anzi: nelle stesse ore, la Itf ha annunciato che la nuova versione della Coppa Davis potrebbe essere ospitata in un’altra località-faro per i diritti umani: Abu Dhabi.

E l’Atp è direttamente in affari con società cinesi, come lo sono alcune delle stelle più rilucenti del tennis: per esempio Roger Federer, sotto contratto con la società statale Jiushi Group per una serie di esibizioni fino al 2023. E se alcuni colleghi maschi di seconda fascia hanno protestato per la risposta morbida del loro sindacato, il numero due del mondo Daniil Medvedev l’ha messa così: «Simon ha fatto una cosa molto audace.

Noi giochiamo in tanti stati che hanno problemi politici e sociali, lo sappiamo eppure in campo ci andiamo ugualmente». Il punto è proprio questo: ritirare i giocatori è una scelta forte, forse l’unica civilmente corretta. Ma la pagano gli atleti. In un sistema, peraltro, che si regge sulle dazioni dai Paesi dell’est: non si può fare finta di non sapere che l’industria dello sport è pronta a implodere, senza quella voce di entrata a bilancio.

Poche tenniste lo ammetterebbero perché verrebbero tacciate di egoismo e insensibilità, ma la gran parte delle professioniste ha bisogno di giocare: in Cina, UAE, Qatar e tutto dove si riesce a ottenere un montepremi appetibile, tanto più dopo la pandemia che ha azzoppato il calendario del tennis mondiale.

Le Serena Williams e i Novak Djokovic non ne hanno bisogno, ma sotto la cinquantesima posizione mondiale ci sono giocatrici che devono far quadrare i bilanci, e sono la maggioranza assoluta delle professioniste. Nel tennis non ci sono squadre che stipendiano, si guadagna solo se si gioca (e se si vince, e se non ci si fa male).

Non è una questione di assenza di scrupoli, ma di sopravvivenza. Il caso Peng è gravissimo ma le casse dello sport, di molti sport ormai dipendono dalla Cina e da altri luoghi per noi eticamente impresentabili, in misura tale da non potersi permettere colpi di testa.

Causa covid, per due stagioni tutti i tornei cinesi sono stati cancellati e la Wta ha disperatamente cercato di compensare organizzando eventi in Europa, senza trovare quasi mai qualcuno in grado di pagare quanto è necessario per ospitare un torneo. Col risultato che ci sono atlete, anche piuttosto famose, semidisoccupate e in bolletta.

Quando, due anni fa, il direttore generale della franchigia Nba degli Houston Rockets dichiarò pubblicamente il suo appoggio alle proteste dei cittadini di Hong Kong contro il regime, la Cina rispose spegnendo il canale CCTV.

Che significò togliere a tutti i fan cinesi il campionato di basket americano, e i relativi abbonamenti. Come finì? Mister Daryl Morey fu costretto a ritrattare e la Nba a scusarsi, perché quel rubinetto di soldi permette al sistema di restare in piedi.

Il nostro mondo ha smesso da tempo di considerare emirati, califfati e affini come posti buoni per le vacanze, e gli esempi si sprecano. I regimi dell’est, da territori raccontati da qualche inviato coraggioso, si sono fatti proposte di mercato al pari di un contratto con una grande squadra europea: abbiamo visto campioni del mondo italiani farsi ammaliare dall’irresistibile fascino del calcio cinese e accordarsi per la panchina del Guangzhou (di proprietà Evergrande e Ali Baba) e del Tianjin, calciatori di serie A mettersi a disposizione della rosa dello Shandong.

La sensazione è che il mondo dello sport non sia pronto a staccare la spina alla Steve Simon – che starà pregando affinché la sospensione possa decadere prima della ripartenza della stagione del tennis, potete giurarci – semplicemente perché non si scende in piazza a protestare contro la propria ombra.

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