Le manovre dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) intorno a Taiwan che si sono concluse ieri rappresentano un punto di svolta nelle relazioni di Pechino con Taipei, Washington e gli alleati degli Stati Uniti.

Lo schiaffo di Nancy Pelosi ha offerto a Xi Jinping il destro per mostrare – attraverso esercitazioni a fuoco vivo senza precedenti – i progressi dell’ex armata contadina maoista che, secondo i piani del Partito comunista cinese (Pcc), dovrebbe completare una modernizzazione di base entro il 2035 e diventare un esercito di prim’ordine entro il 2049, centenario della fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc).

Per centrare questo obiettivo l’aumento delle spese militari – inferiori solo a quelle Usa – nel decennio 2012-2021 è stato continuo. Quest’anno Pechino ha approvato un bilancio per la difesa di 1.450 miliardi di yuan (230 miliardi di dollari), in crescita del 7,1 per cento rispetto al 2021.

I war game incominciati subito dopo che, il 3 agosto scorso, la terza carica degli Stati Uniti aveva terminato la sua visita a Taipei sono serviti a preparare operazioni di “blocco congiunto” e “difesa congiunta”, cioè a dimostrare che l’Epl è capace non solo di isolare Taiwan, ma anche d’impedire agli Stati Uniti di intervenire in suo soccorso.

Nell’ultima settimana Pechino ha affermato una “nuova normalità”. Ieri infatti il portavoce Shi Yi ha comunicato che d’ora in avanti il comando orientale dell’Epl effettuerà esercitazioni regolari nello Stretto: la pressione militare su Taiwan rimarrà costante.

Mentre i primi sottomarini moderni made in Taiwan ordinati dalla presidente Tsai Ing-wen saranno pronti nel 2025, nell’immediato l’isola dovrà continuare a fare affidamento su due vecchi “Dragoni marini” che in questi giorni gli aerei Y-8, gli elicotteri Ka-28 e i cacciatorpedinieri Tipo 052 con la stella rossa si sono addestrati a colpire.

L’Epl non ha invece utilizzato i più moderni corrispettivi Y-8Q, Z-20, e Tipo 055, né le sue due portaerei operative, la “Liaoning” e la “Shandong”. Nelle prove per colpire Taiwan da terra, dal cielo e dal mare sono stati invece impiegati i caccia invisibili Chengdu J-20, mentre le Forze missilistiche (uno dei reparti più avanzati dell’Epl) venivano mobilitate in operazioni notturne con il lancio di undici razzi balistici Dongfeng.

Xi come Putin?

Le corazzate e i jet di Xi attorno a Taiwan come le colonne di carri armati di Vladimir Putin che circondarono l’Ucraina alla vigilia dell’invasione del 24 febbraio scorso? Improbabile.

Ieri però Pechino ha pubblicato un libro bianco, intitolato “La questione taiwanese e la riunificazione della Cina nella Nuova era”, che segnala la determinazione della leadership a procedere sulla strada della cosiddetta “riunificazione”.

Si tratta di un documento importante (il precedente risaliva al 1993) inteso a illustrare al mondo la posizione di Pechino su quella che secondo la Rpc è una questione che riguarda la sua sovranità e integrità territoriale, mentre per gli Stati Uniti rientra in un confronto tra regimi autoritari e democrazie.

Il libro bianco afferma che Pechino non permetterà mai l’indipendenza di Taiwan né rinuncerà all’uso della forza, che verrebbe però indirizzata solo contro le forze separatiste.

«La riunificazione pacifica e “un paese, due sistemi” sono i nostri principi di base per risolvere la questione di Taiwan e l’approccio migliore per realizzare la riunificazione nazionale», si sostiene nel documento.

Il principio “un paese, due sistemi” è tuttora vigente a Hong Kong, dove non ha impedito il soffocamento dell’autonomia politica e una forte compressione della libertà d’espressione. Tsai e il suo Partito progressista democratico (Dpp) lo hanno sempre respinto come possibile compromesso per riunire le due sponde dello Stretto.

Tuttavia, il ricorso alla forza si rivelerebbe per Pechino un boomerang, per due motivi fondamentali. Anzitutto perché un’invasione (così come un blocco navale) sarebbe uno shock devastante per le relazioni economico-commerciali con Taiwan, con gli Stati Uniti e l’Unione Europea.

È stata giustamente evidenziata la centralità di Tsmc per i microchip (oltre l’80 per cento di quelli più avanzati viene prodotto sull’isola). La compagnia taiwanese sta aprendo stabilimenti negli Usa e in Giappone, lasciando in Cina gli impianti meno avanzati.

Ma il capitale taiwanese per Pechino vuol dire tanto altro: Foxconn, ad esempio, è il principale datore di lavoro del settore privato nella Rpc, poi c’è l’altro gigante dell’elettronica Pegatron e altri consolidati, enormi investimenti.

Il principale partner commerciale di Taiwan è la Rpc, dove va circa il 30 per cento del suo export, e oltre la metà dei suoi investimenti esteri diretti (5,8 miliardi di dollari l’anno scorso). Gli interessi economici in ballo sono enormi e, da una parte all’altra dello Stretto, il mondo del business vede uno scontro militare come fumo negli occhi.

In secondo luogo, una cosa sono i fuochi d’artificio delle esercitazioni degli ultimi giorni, un’altra è la reale capacità – da parte di un esercito ancora poco professionale e altamente politicizzato – di mettere in atto un blocco navale o lanciare una guerra anfibia e mantenere un’occupazione militare dell’isola.

Far cadere Tsai

Alla luce di queste considerazioni, rassicurare il fronte interno sulla fermezza della leadership e mostrare a Taiwan di poterne mettere in ginocchio l’economia appaiono gli obiettivi principali della risposta, rumorosa quanto simbolica, ordinata da Xi.

Alla vigilia del XX Congresso, Xi non poteva mostrarsi indeciso agli occhi dei generali e dei settori più nazionalisti del partito, ben rappresentati all’interno del potente Comitato centrale.

La questione taiwanese è un nervo scoperto anche tra le masse di cinesi a cui viene insegnato che Taiwan è sempre stata parte della Cina, invasa prima (nel 1895) dai giapponesi e in seguito (nel 1949) dai nazionalisti del Kuomintang sconfitti dai maoisti nella guerra civile.

Il South China Morning Post ha pubblicato un intervento del professor Xie Maosong – dell’università Tsinghua di Pechino – che ha scritto: «Molti in occidente credono ancora che Pechino non sia pronta a riunificare Taiwan. Ma guardando indietro alla storia cinese moderna, la Cina era pronta ad affrontare gli Stati Uniti nella guerra di Corea?».

L’altro obiettivo primario dei war game di Pechino – che traspare chiaramente dal libro bianco – è il tentativo di influenzare la vita politica di Taiwan. Creare danni economici all’isola (i boicottaggi delle importazioni hanno colpito non a caso soprattutto le roccaforti del Partito progressista democratico, Dpp) nel tentativo di minare il consenso popolare di Tsai, a partire dalle elezioni locali del prossimo 26 novembre.

Se i war game non sono il preludio di un’invasione, tuttavia c’è poco da stare tranquilli.

L’ora dell’incertezza

Tutte le intese degli ultimi decenni tra i tre principali attori sembrano infatti saltate: gli Stati Uniti hanno iniziato a picconare la loro politica “Una Cina” e la “ambiguità strategica”, mentre Pechino da tempo ha lanciato i sorvoli nelle zone di identificazione aerea taiwanese e negli ultimi giorni si è spinta per la prima volta con caccia e navi da guerra al di là della Linea mediana che “divide” in due lo Stretto.

E il governo del Dpp va avanti con la sua strategia d’internazionalizzazione della questione taiwanese. «La Cina – ha sostenuto martedì scorso Joseph Wu – ha ambizioni geostrategiche che vanno ben oltre Taiwan».

Secondo il ministro degli esteri di Taipei, Pechino punta a stabilire la sua egemonia sul Pacifico occidentale, «collegando il Mar cinese orientale e meridionale attraverso lo Stretto di Taiwan, in modo che l’intera area diventi sue acque interne». «È quindi fondamentale che tutte le nazioni amanti della libertà lavorino insieme per esplorare i mezzi per rispondere all'espansione dell’autoritarismo», ha affermato.

Intanto al Congresso Usa è in discussione il Taiwan Policy Act. Se approvato, secondo Lu Xiang «rovescerebbe le relazioni sino-americane». La parte più controversa del progetto di legge designa Taiwan come un «importante alleato non-Nato» degli Usa.

Ciò «sarebbe equivalente al riconoscimento della sovranità di Taiwan», ha affermato lo specialista di relazioni Usa-Cina presso l’Accademia cinese delle scienze sociali. «Riconoscere la sovranità di Taiwan significa riconoscere la sua indipendenza e, di conseguenza, la Cina dovrebbe risolvere la questione di Taiwan una volta per tutte».

© Riproduzione riservata