A Gaza continuano a morire gli innocenti. Fonti mediche nella Striscia hanno riferito che 62 palestinesi sono stati uccisi martedì, fra cui 19 mentre aspettavano la distribuzione di pacchi alimentari. Le organizzazioni umanitarie internazionali descrivono come assolutamente insufficiente l’accelerazione nella distribuzione degli aiuti concessa controvoglia da Israele per tamponare le critiche internazionali sull’incipiente carestia nella Striscia. Le immagini sono quelle di un disastro umanitario, nelle capitali europee qualcosa inizia a muoversi.

Dopo Emmanuel Macron, è la volta di Keir Starmer a preannunciare il riconoscimento dello Stato palestinese da parte del Regno Unito: è una sorta di ultimatum, quello del premier britannico. A meno di un radicale cambio di direzione da parte del governo israeliano che ponga fine alla crisi umanitaria a Gaza, Londra riconoscerà lo Stato palestinese a settembre, seguendo l’esempio francese.

La svolta di Keir

Quel che chiede Starmer – che significativamente ha preso la parola dopo che finanche Donald Trump, proprio in Scozia, ha contraddetto apertamente Netanyahu affermando che «a Gaza c’è la fame» – sono «misure sostanziali» da parte di Israele. L’inquilino di Downing Street ha sentito la necessità di precisare che l’obiettivo britannico resta quello di un Israele «al sicuro» e di uno Stato palestinese «sostenibile e sovrano», ma che attualmente le possibilità per la soluzione dei due Stati «si stanno riducendo».

A dimostrazione dell’impegno britannico, Londra ha iniziato martedì a partecipare ai lanci aerei di aiuti su Gaza, come già annunciato due giorni fa d'intesa con Francia e Germania, anche se secondo lo stesso Starmer servono flussi via terra e almeno «500 camion al giorno» per stabilizzare la situazione umanitaria nella Striscia.

Ed è altrettanto significativo che mentre si registra un cambiamento importante da parte di varie capitali a fronte di Gaza e nei confronti del governo Netanyahu, s’inizino a vedere uno spostamento nel dibattito pubblico interno in Israele. Prendete il caso di “Tesha neshamot”, una piccola casa editrice israeliana il cui nome significa “Nove Anime”: ha fatto sapere che d’ora in avanti i suoi libri verranno stampati con una denuncia della guerra di Gaza in bella vista sul retrocopertina. «La casa editrice si oppone all’uccisione di persone innocenti a Gaza», recita la dicitura scelta dal fondatore, il quarantanovenne Uriel Kon. «Sosteniamo la fine della guerra e il ritorno dei rapiti».

Kon spiega al telefono da Tel Aviv che l’iniziativa della sua casa editrice nasce da un disagio rispetto all’incapacità del mondo della cultura israeliano di prendere posizione contro le atrocità di Gaza. «Trovo incredibile che in Israele per così a lungo nessuna casa editrice, istituzione culturale, teatro, museo, nessuno, si sia espresso sul massacro di palestinesi a Gaza», spiega. Un’incapacità che sembra trovare una conferma nell’accoglienza gelida riservata finora alla sua iniziativa.

«La nostra scelta di opporci pubblicamente a questa situazione rischia di essere suicida», continua Kon. «Dopo questo tipo di prese di posizione [nel clima di nazionalismo israeliano] si rimane quasi automaticamente emarginati. Chiedere a Israele di smettere di uccidere innocenti a Gaza è quasi tacitamente proibito. Ma non mi interessa: come potrei lavorare con i libri se non posso nemmeno esprimere un messaggio semplice, come basta uccidere persone innocenti?».

La bussola morale

Insomma, qualcosa si muove. Le immagini dei bambini di Gaza hanno iniziato già da un po’ ad apparire alle proteste di Tel Aviv, dove gruppi di obiettori di coscienza hanno sfilato bruciando il foglio di convocazione dell’esercito. Dani Dayan, il presidente di Yad Vashem, ha scritto sul Jerusalem Post del dovere di recuperare «la bussola morale che ha sempre guidato il popolo ebraico, lo Stato di Israele e le Forze di difesa israeliane». Le organizzazioni per i diritti dei palestinesi, fra cui la nota B’Tselem, hanno iniziato a usare la parola “genocidio” per descrivere la situazione a Gaza.

Secondo Kon, tuttavia, la vicenda della sua casa editrice testimonia come i sussulti nel mondo della cultura rimangano limitati. «La nostra intenzione all’inizio era quella di pubblicare una sorta di annuncio trasversale della cultura israeliana», spiega. «Abbiamo contattato i nostri colleghi editori, che probabilmente, o almeno così dicono, sono contro la guerra, per coinvolgerli nell’iniziativa, ma senza ottenere nulla. Finora nessuno ha chiamato per aderire».

C’è stata anche una fronda interna. Gli autori israeliani della casa editrice stessa – che rappresentano il 30 per cento delle opere pubblicate, mentre il 70 per cento sono tradotte dall’estero – hanno chiesto di evitare di stampare la dicitura sulle loro opere in uscita. «Mi dicono: sappiamo che è terribile, ma queste cose succedono in guerra», racconta Kon. «Dunque la nostra presa di posizione uscirà sulle opere tradotte, oltre a campeggiare sul nostro sito».

“Tesha neshamot” è stata fondata nel 2015 e si specializza nella traduzione di opere letterarie europee e latinoamericane in ebraico. La vocazione sudamericana si spiega in parte con l’origine argentina di diversi dipendenti, fra cui lo stesso Kon che è immigrato in Israele nel 1998. Fra le opere tradotte dall’italiano c’è Il fascismo eterno di Umberto Eco oltre che libri di Natalia Ginzburg e, più di recente, dello scrittore emiliano Ugo Cornia.

La casa editrice ha anche svolto un ruolo di primo piano per diffondere grandi classici in Israele. Ha tradotto Joseph Roth, Stefan Zweig, Walter Benjamin, oltre che Charles Dickens. Fra gli autori israeliani c’è Paulina Tuchschneider. Dopo aver avuto scarso successo in Israele con il suo Soldatessa, un affresco spietato e ironico dell’esperienza spesso tediosa del servizio militare in Israele, Tuchschneider, che è di origini polacche, ha spopolato all’estero con la traduzione in spagnolo.

“Tesha neshamot” stampa i propri libri a Nablus, in Cisgiordania, presso una stamperia palestinese. Al momento, raccontano i responsabili, circa 3,000 copie fresche di stampa sono bloccate in una specie di terra di nessuno fra i territori e Israele. Al rientro nei confini dello Stato ebraico, infatti, gli uomini della sicurezza di un check-point non si capacitavano della scelta anomala di affidarsi ad un’azienda dall’altra parte del muro.

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