Lunedì la storia ha disorientato chi si domanda se gli occidentali archivieranno o no, insieme al mal usato “interventismo liberale”, anche la difesa dei diritti umani. In Ungheria, trionfo elettorale di Orban, fondatore della più esplicita “democrazia illiberale” d’Europa. In Serbia, vittoria nelle presidenziali di Aleksandar Vucic, espressione di una società tuttora incapace di fare i conti con i misfatti del proprio recente passato. Ma in controtendenza con i successi dei due leader, entrambi critici verso Volodymyr Zelensky e amichevoli con Vladimir Putin, ecco un occidente sconvolto dalle immagini di civili assassinati alle porte di Kiev. Mosca prova a smentire e allora accade qualcosa che fino a pochi anni fa era impensabile: compaiono foto satellitari che datano la strage di Bucha ai giorni in cui i russi erano nel villaggio; e internauti ucraini individuano il giovane tenente siberiano che comandava gli occupanti, ne pubblicano la foto, perfino indirizzo e numero di telefono.

Smascherata dalle nuove tecnologie la guerra ha un nome e un cognome, non è più l’evento impersonale e misterioso quale fino a ieri ci appariva. D’un tratto l’orrore è nudo.

Quanto più l’esercito russo arretrerà, tanto più spesso gli ucraini, entrando nelle città liberate, scopriranno altri eccidi. Non perché i generali di Putin stiano mettendo in atto un piano genocida, la frettolosa accusa di Zelensky e del governo polacco, ma perché una somma di fattori conduce a credere che gli omicidi scoperti nei dintorni di Kiev non siano affatto isolati.

Chi combatte

Foto AP

Gli irregolari cui a quanto pare ora Mosca si affida, in Libia avevano fama di non fare prigionieri. Poi i reparti speciali: hanno nel dna le guerre di Cecenia, dove cinquemila umani sparirono nelle camere di tortura, e di Siria, dove tutto era ammesso e nessuno ha mai pagato.

E soprattutto: migliaia di coscritti giovanissimi sono stati scaraventati in Ucraina perché, diceva Putin, occorreva sventare lo sterminio di russi ordito dai nazisti ucraini. Combattere un’orda feroce di cui sai nulla, tranne che vuole assassinare te e la tua famiglia, non è la stessa cosa che combattere un nemico qualunque, verso il quale non hai motivi per nutrire un’ostilità esistenziale.

Se a questo aggiungiamo che l’esercito russo ha subito perdite ingenti e da quel che si intuisce è piuttosto sgangherato, possiamo immaginare il seguito: soldati impauriti, affamati, furiosi per la morte dei compagni caduti in combattimento, prima di ritirarsi si vendicano sulla popolazione, nella certezza che in quella bolgia nessuno punirà l’assassinio di ucraini inermi, presunti complici del Fuhrer Zelinsky.

Manca la pianificazione

Foto AP

Tutto questo non costituisce un’altra Srebrenica, dove ottomila Mussulmani furono rastrellati e uccisi. È semmai una somma di uccisioni sporadiche, sparpagliate in un’area vasta, fino a prova contraria non collegate tra di loro dalla volontà di terrorizzare (un totale di 410 civili uccisi in 31 villaggi, secondo le autorità ucraine). Non appare la pianificazione, l’intenzione di cancellare una comunità dalla geografia umana.

Non ci sono, stando alle evidenze attuali, comportamenti congrui con i crimini contro l’umanità. Ma ve ne è abbastanza perché la Corte penale internazionale proceda per crimini di guerra, quantomeno contro i comandanti delle unità russe.

E Putin? Quando ha praticato l’inversione dei ruoli che è tipica di ogni genocidio, quel “dobbiamo ucciderli perché altrimenti loro uccideranno noi”, non poteva non sapere che il suo esercito avrebbe combattuto di conseguenza, senza troppe remore a commettere atrocità.

Lo si può punire con ulteriori sanzioni, ma non processare. Se fosse trasformato in un imputato della giustizia internazionale, un pariah cui sarebbe perfino impossibile viaggiare nel mondo, chi di grazia dovrebbe negoziare il compromesso che potrebbe porre fine alla guerra (certo, ammesso che si voglia negoziare)?

Data l’impostazione che Putin impresse alla guerra fin dall’inizio, può apparire perfino sorprendente che in un mese di guerra i russi non abbiano fatto di peggio. Stando a testimoni, dove non si è combattuto alcuni battaglioni si sarebbero comportati con una certa correttezza.

Ed è probabile che di solito (ma non sempre) abbiano bombardato palazzi e città per snidare i soldati ucraini, non per terrorizzare la popolazione. Qualcuno in Italia ne concluderà che se gli ucraini si fossero arresi nessuno sarebbe stato ucciso: ma è un modo molto italiano di intendere le cose.

Esercito di lanzichenecchi

Foto AP

La più autorevole ong per i diritti umani, Human Rights Watch, afferma di aver raccolto in questi giorni prove di «indicibile, deliberata crudeltà e violenza contro civili ucraini». Stupri, l’assassinio a freddo di un giovane prigioniero, il massacro di altri sei prigionieri a Bucha; e ovunque razzie di telefonini, soldi, generi alimentari: il segno distintivo di un esercito di lanzichenecchi, rapaci, indisciplinati, violenti (qualcuno obietterà che l’americana Human Rights Watch è di parte, ma anche questo è falso: Hrw ha picchiato duro sugli Stati Uniti, e su alleati degli Usa come Israele).

Ovviamente col tempo scopriremo anche vendette compiute dagli ucraini. Lo scontro russo-ucraino fu sporco fin dall’inizio, i primi report di Hrw sulla guerra nel Donbass (2014-2015) contestano crimini di guerra agli uni e agli altri. E chi ne dubitasse farebbe bene a rileggersi la storia del fotoreporter italiano Andy Rocchelli, assassinato da paramilitari ucraini nel 2014. Ma questa simmetria va maneggiata con onestà.

Una democrazia imperfetta

Kiev ha tollerato fin troppo milizie di estrema destra, ma ha proposto alla Corte penale internazionale di indagare su quanto è accaduto in questi anni nel Donbass; e per quanto i russofoni, un terzo della popolazione, talvolta abbiano subito il sospetto sommario di “lavorare per Mosca”, l’Ucraina resta una (assai imperfetta) democrazia liberale, dunque inter etnica.

Di Mosca e dei suoi miliziani dice a sufficienza quel che è successo ai Tatari di Crimea, una delle popolazioni più perseguitate dal pianeta. Scacciati dalla loro terra prima dagli zar, poi da Stalin (che li deportò quasi tutti), e sempre tornati alle loro case, adesso sono sotto il tallone di Putin, che dopo esseri preso la Crimea sta facendo il possibile per cancellarli dalla geografia politica della penisola e per sostituirli con russi.

Sembra esserci una certa continuità in questo stile imperiale e nel suo nazionalismo etnico, variamente interpretato secondo le epoche e le differenti culture politiche degli attori, ma a conti fatti identico nel tempo.

C’è invece discontinuità nello sgomento occidentale, positivo e giustificato, anche se non privo di qualche enfasi strumentale. Quando Biden dice che Putin andrebbe processato per crimini di guerra, dovrebbe spiegare chi dovrebbe istruire il processo.

Certo non le Nazioni unite, considerato che la Russia siede nel Consiglio di sicurezza. Semmai la Corte penale internazionale (Icc), che però gli Usa non riconoscono. E anzi durante la presidenza Trump dichiararono “persona non grata” il procuratore generale della Corte, intimandogli di non mettere piede sul suolo statunitense pena l’arresto.

Washington non aveva gradito che l’Icc avesse aperto indagini su comportamenti di militari statunitensi in Afghanistan. Siamo alla vigilia di un ripensamento americano? Sarebbe clamoroso, ma è improbabile.

In Ucraina l’Icc sta indagando da tempo, ed è un buon segno che proprio l’Unione europea ne abbia chiesto l’intervento all’inizio dell’invasione russa (così come nel suo piccolo questo giornale proponeva). Se esiste una “civiltà politica europea”, necessariamente liberale, l’Icc e il suo codice, lo statuto di Roma, ne sono la più compiuta espressione.

Inoltre l’emozione suscitata in Europa dai cadaveri di Bucha ci ricorda che difendere i diritti umani non è un esercizio fine a sé stesso. Ora gli ufficiali russi sanno che potrebbero essere chiamati a rispondere dei crimini commessi in Ucraina, così come accadrà al tenente siberiano scovato dagli internauti ucraini.

© Riproduzione riservata