Oggi i riflettori del mondo, o almeno dell’occidente, sono tutti accesi in direzione dell’Ucraina, dopo l’invasione russa iniziata nel febbraio del 2022. Una reazione comprensibile, vista la prossimità e la vicinanza geografica della guerra; eppure di conflitti in corso il mondo ne è pieno, soprattutto nel continente africano. Papa Francesco già dal 2014 ha cominciato a parlare di una «terza guerra mondiale a pezzi», un concetto ripetuto in più di un’occasione e poi leggermente cambiato dal pontefice in «totale» o «globale» durante alcuni discorsi a partire dallo scorso settembre.

L’Africa – o le Afriche, vista la grandezza e le diversità al suo interno – è senza dubbio il continente maggiormente attraversato da questa guerra mondiale frammentata. È percorsa da conflitti spesso dimenticati, scoppiati per motivi territoriali, etnici, economici, aggravati dal riscaldamento climatico, dalle carestie e dal terrorismo jihadista. Ogni anno, però, causano almeno decine di migliaia di morti.

Tra il 2021 e i primi mesi del 2022 sono state 42.949 i civili africani uccisi registrati da Armed Conflict Location & Event Data project (Acled), in particolare in Nigeria, Etiopia, Repubblica democratica del Congo e Somalia, a causa di guerre e violenze. Un triste bollettino che dovrà essere aggiornato visto che nel resto del 2022 molti conflitti sono proseguiti, alcuni sono ripresi, altri ancora intensificati, con il 2023 che si preannuncia almeno tanto violento quanto gli anni precedenti.

Le crisi anglofone in Camerun

Tra le crisi forse più dimenticate c’è quella del Camerun. È dal 2016, infatti, che nel paese si scontrano due regioni separatiste – nel nord ovest e nel sud ovest – con la capitale Yaoundé. Tensioni conosciute come la crisi anglofona (o dell’Ambazonia, dal nome dell’area interessata) per via della mobilitazione di gruppi indipendentisti anglofoni.

Una guerra civile a bassa intensità ma che nel corso di sei anni ha causato circa 6.000 vittime e secondo le Nazioni unite circa 600mila profughi. Le violenze sono proseguite negli ultimi mesi del 2022 e spesso a rimetterci sono i civili. La repressione del governo del Camerun, compiuta sia con i blackout di internet sia con il pugno duro delle forze armate, è stata pesante: rappresaglie, arresti arbitrari, torture, villaggi incendiati.

Il dialogo tra le parti non è giunto ancora a una soluzione, nonostante le pressioni internazionali. Per prime quelle francesi, con il presidente Emmanuel Macron che lo scorso luglio si è recato in Camerun anche per spingere alla pace i belligeranti. Un tentativo vano, con i separatisti anglofoni che continuano a volere una piena indipendenza da Yaoundé.

Il Mali senza più occidente

Macron invece non andrà più in Mali. Il 2022 è stato l’anno del ritiro occidentale, con la conclusione ufficiale dell’operazione Barkhane a guida francese e la preoccupante avanzata dei gruppi jihadisti. Una decisione presa sia per un generale cambio di strategia di Parigi riguardo il Sahel, sia per evitare ulteriori perdite di militari, sia perché la popolazione locale ha manifestato la propria insoddisfazione per la presenza del contingente transalpino. Il 2022 è stato anche il periodo più cruento nella storia recente del paese, con migliaia di morti civili. 

Dal 2021, dopo l’ultimo colpo di stato avvenuto a Bamako, in Mali sono presenti centinaia di mercenari russi del gruppo Wagner che hanno iniziato a fiancheggiare l’esercito locale per l’addestramento e la lotta al terrorismo islamico. In realtà le loro attività hanno aggravato la situazione ancora di più, rendendosi autori di uccisioni e sistemi brutali. 

Sono però riusciti a insediarsi nel paese, con Mosca che ha esplicitato il suo interesse a Bamako per una cooperazione nel campo della sicurezza. Una penetrazione che ha influenzato parte della popolazione, come dimostrato dalle bandiere russe sventolate per le strade in più di un’occasione negli ultimi mesi. 

I colpi di stato in Burkina Faso

Rispetto al vicino Mali, per il Burkina Faso il 2022 è stato un anno ancora più particolare, condito da due colpi di stato militari. Il primo il 24 gennaio e il secondo il 30 settembre, quando il capitano dell’esercito Ibrahim Traoré ha preso il controllo del paese, sciogliendo il parlamento ad interim e concludendo una parentesi democratica che in Burkina Faso andava avanti da qualche anno. La figura di Traoré ha ricevuto l’appoggio della Russia, che sempre di più sta cercando di penetrare nella regione del Sahel.

Dal 2016 il paese ricco di risorse e giacimenti d’oro ha però visto crescere l’instabilità e la violenza a causa di formazioni jihadiste legate ad Al Qaeda e allo Stato islamico che agiscono al confine con il Mali, responsabili di migliaia di attacchi contro i civili, i villaggi e le forze dell’esercito di Ouagadougou. Nel giro di pochi anni le vittime sono state migliaia e gli sfollati quasi due milioni.

La frammentata Nigeria

Nel febbraio del 2023 si terranno le elezioni in Nigeria, uno stato che ha visto un aumento delle tensioni, delle violenze e dei rapimenti di civili in tutto il 2022. È la nazione più popolosa dell’Africa con circa 210 milioni di abitanti, ma è diviso in varie componenti locali, statali, etniche e identitarie. Una condizione che porta il paese a essere attraversato da molti scontri armati, aggravati dalla presenza di gruppi jihadisti come Boko Haram e l’Iswap, cellula dello Stato islamico.

Nei primi sei mesi del 2022 sono state circa 2.300 le vittime civili registrate da Acled e la maggiore responsabilità è da attribuire proprio alle milizie locali soprattutto nel centro nord della Nigeria. Ma la violenza è cresciuta anche nel sud est del paese, sia per le azioni di nuovi gruppi armati non meglio identificati sia per quelle del movimento indipendentista Ipob (Popoli indigeni del Biafra), che hanno trovato la reazione dell’esercito di Abuja.

La pace fragile del Tigray

Dopo due anni di guerra, iniziata nel novembre del 2020, l’Etiopia ha trovato la pace – almeno sulla carta – il 2 novembre scorso, quando è stato firmato in Sudafrica un accordo per cessare le ostilità tra il governo di Abiy Ahmed e i ribelli del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf), nella regione settentrionale del paese. 

Gli scontri sono stati violentissimi e sia l’esercito etiope (supportato in maniera importante dall’Eritrea) sia le milizie del Tigray sono accusati dalle organizzazioni internazionali di aver compiuto crimini di guerra: bombardamenti indiscriminati, esecuzioni, torture, stupri e pulizia etnica.

Non si hanno numeri certi ma le stime parlano di centinaia di migliaia di vittime sia civili che non. E la crisi ha assunto proporzioni enormi, con milioni di persone che necessitano di aiuti umanitari e centinaia di migliaia di sfollati. Anche se al momento è ancora in piedi, l’accordo di pace sembra essere fragile e il rischio che la guerra riparta nel 2023 è concreto.

Nessuna tregua per il Sud Sudan

Dalla sua nascita nel 2011 il Sud Sudan ha vissuto pochi momenti di pace con una guerra che nel corso degli anni fino al 2018 ha causato circa 400mila vittime. Da allora è stato avviato un percorso di transizione per attuare pienamente i punti degli accordi di pace tra le fazioni rivali, tra cui l’integrazione nell’esercito regolare di decine di migliaia di combattenti avvenuta lo scorso agosto. Ma ancora una volta le elezioni sono state rimandate da parte del presidente Salva Kiir e sono ora previste per il 2024.

Nello stesso agosto le violenze sono riscoppiate nella regione dell’Alto Nilo. A scontrarsi sono bande di milizie, favorite dall’ampia diffusione di armi leggere nel paese, a causa di differenze etniche e di fattori geoeconomici, come la lotta per il controllo di particolari territori, pascoli o fonti d’acqua.

Anche in questo caso, a finirci di mezzo sono i civili e le fasce di popolazione più fragili. L’Unhcr, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni unite, ha avvertito che in questi mesi sono dovute fuggire almeno 20mila persone, per la maggior parte donne e bambini.

Le rivendicazioni sul Sahara occidentale

Nel nord ovest del continente africano c’è poi un altro fronte che fa temere possibili escalation militari: il Sahara occidentale, la porzione di terra in Marocco rivendicata dal movimento del Polisario e confinante con l’Algeria. La controversia va avanti da decenni ma si è riaccesa soprattutto nel 2021 e anche nel 2022 ha trovato sfogo. 

Il Fronte Polisario, che vorrebbe l’indipendenza del popolo saharawi, lotta contro l’occupazione del Marocco del territorio del Sahara occidentale avvenuta nel 1975. Rabat ancora oggi controlla circa l’80 per cento della zona contesa e ha costruito un muro di 2.700 chilometri per dividere i territori. I membri del Polisario sono supportati dall’Algeria e hanno ripreso le ostilità – seppur a bassa intensità – dopo uno stallo lungo anni che ha prodotto pochi risultati, mentre Rabat e Algeri hanno interrotto le relazioni diplomatiche.

L’escalation è probabile che continui anche nel 2023 e rende più vicino all’orizzonte un possibile scontro diretto tra Marocco e Algeria, i due paesi africani con gli apparati militari più efficienti e con le più alte spese nel settore della difesa. Una guerra aperta, visti i loro legami energetici e commerciali con i paesi europei – come Francia e Italia – ancor più stretti dopo l’invasione russa dell’Ucraina, avrebbe conseguenze dirette anche per il Vecchio continente, senza contare l’elemento migrazioni.

La minaccia jihadista in Somalia

In Somalia il 2022 è stato caratterizzato dall’incremento della violenza da parte del gruppo jihadista di Al Shabaab, legato ad Al Qaeda. Il conflitto nel paese va avanti in realtà dal 2006 ma ha visto una recrudescenza sul finire dell’anno, con diversi attentati terroristici, decine di vittime e «una guerra totale» ai gruppi islamici promessa dal presidente somalo Hassan Mohamud, eletto lo scorso maggio.

A rendere ancora più critica la situazione è la grave carestia annunciata in diverse regioni del paese. Una condizione costante per la Somalia, ma che nel 2022 è peggiorata dalla guerra in Ucraina, visto che Mogadiscio acquista circa il 90 per cento dei rifornimenti di grano proprio da Mosca e Kiev. 

Gli attacchi ai convogli umanitari che trasportano cibo e beni sono aumentati e le ostilità dei guerriglieri continuano. Le Nazioni unite hanno più volte lanciato l’allarme per quella che è la peggiore siccità degli ultimi 40 anni: nei primi mesi del 2023 porterà un’emergenza diretta per 2,7 milioni di persone e costringerà alla fame più di 700mila persone. In più le migrazioni continuano, con decine di migliaia in fuga e diretti principalmente verso i campi rifugiati in Kenya. 

Il terrorismo in Mozambico

Anche in Mozambico la situazione è precaria. Dal 2017, infatti, prosegue una spirale di violenza provocata dai guerriglieri jihadisti nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, ma che nel corso degli anni si è allargata anche a zone più centrali del paese. I terroristi sono noti con il nome di Sunna Wa Jama, ma in realtà sono una cellula affiliata allo Stato islamico e vengono chiamati anche Al Shabaab (proprio come in Somalia).

Dagli attacchi contro alcune stazioni di polizia, alle uccisioni di cristiani e agli scontri con l’esercito regolare, il paese ha vissuto momenti di terrore conditi da veri crimini di guerra. Le azioni degli jihadisti sono spesso giustificate dal movente religioso, come l’uccisione della suora italiana Maria De Coppi lo scorso settembre, ma il conflitto è causato soprattutto dalla situazione economica e motivate dalla contesa sullo sfruttamento delle risorse energetiche del paese.

A dicembre il parlamento del Mozambico ha dato il via libera alla legalizzazione di milizie locali da affiancare all’esercito nazionale per fronteggiare i terroristi islamici. Il paese ha anche chiesto aiuto al Ruanda e ad altri stati africani per combattere la rete jihadista, le cui attività hanno anche favorito il sorgere di ulteriori gruppi armati. 

Lo stallo in Libia

Dopo la guerra civile e l’instabilità derivata dalle primavere arabe e dalla caduta di Muammar Gheddafi, propiziata dall’intervento armato occidentale, la Libia oggi rimane ancora divisa. A Tripoli e nel nord ovest c’è il governo di unità nazionale con a capo Abdul Hamid Ddeibah mentre nel centro est è presente il governo della Camera dei rappresentanti, con Fathi Bashagha e ancora il generale Khalifa Haftar.

In generale nel paese nordafricano la situazione militare si è stabilizzata, ma i due diversi governi hanno alle loro spalle milizie e forze armate che non di rado sono protagoniste di scontri. Come successo nell’agosto 2022 a Tripoli, dove sono scoppiati dei combattimenti tra le fazioni armate, in cui sono morte decine di persone e i feriti si sono contati a centinaia.

I ribelli del Kivu in Congo

Un fronte che negli ultimi mesi del 2022 è diventato sempre più caldo è quello in Repubblica democratica del Congo. La tensione è salita a causa soprattutto del gruppo di ribelli M23, nato dopo gli accordi di pace del 23 marzo 2009 e sostanzialmente inattivo da qualche anno, che ha formato un vero e proprio esercito nella regione del Kivu (a nord est del paese) prendendo il controllo di centri e villaggi.

Gli M23, sostenuti anche dal Ruanda, hanno ripreso le armi e si sono resi protagonisti di alcuni scontri con le forze di sicurezza della Rdc, spargendo violenze e tagliando i collegamenti di Goma, la capitale del Kivu settentrionale. Le ostilità stanno contribuendo a una grave crisi umanitaria, con decine di migliaia di sfollati tra la popolazione civile. A fine novembre nel villaggio di Kishishe sono stati uccisi dagli insorti 131 civili, secondo quanto riferito dalla missione delle Nazioni unite.

Da Kinshasa hanno accusato frontalmente il Ruanda per il supporto ai ribelli, tanto che a ottobre scorso l’ambasciatore in Congo di Kigali è stato espulso. Nel frattempo l’esecutivo congolese ha annunciato una mobilitazione generale per difendere la nazione e la propria integrità territoriale. Al momento le iniziative diplomatiche non stanno trovando la strada giusta, mentre le truppe si accumulano a ridosso dei territori contesi. Il rischio di un possibile coinvolgimento diretto del Ruanda ha preoccupato anche l’Onu.

Le Nazioni unite sono infatti presenti nel paese con una missione di peacekeeping, ma sono anche in difficoltà nel fronteggiare la situazione. Una condizione che da diverso tempo accompagna i caschi blu non solo in Africa, ma in tutto il mondo.

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