Martedì 6 settembre il nuovo primo ministro britannico si dovrà recare in Scozia, dove la regina è in vacanza, per ricevere come prevede la prassi costituzionale l’incarico di formare il nuovo governo. Si tratta di un evento eccezionale. Normalmente il passaggio dei poteri fra il primo ministro uscente e il neo-eletto avviene a Buckingham Palace, a Londra. Ma la combinazione fra lo stato di salute della regina e la consuetudine della famiglia reale di trascorrere l’intera estate nel castello di Balmoral, rotta soltanto una volta e con riluttanza 25 anni fa per la morte di Lady D, costringeranno Liz Truss a salire in Scozia.

Dopo una lunghissima e soporifera campagna elettorale è ufficiale: Lizz Truss prende il posto di Boris Johnson.

Dovrà farsi un po’ di ore di treno e poi di auto, forse preferirà l’aereo anche se inquinante, ma tanto non ha mai mostrato una particolare sensibilità ecologica, per un incontro che durerà una ventina di minuti al massimo (abbiamo tutti visto il film The Queen con Helen Mirren). L’incarico di formare il nuovo governo di sua Maestà verrà conferito in una terra, la Scozia, che già sta premendo per un secondo referendum per l’indipendenza dal Regno Unito. C’è quasi del farsesco.

Un processo paradossale

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Il “viaggio scozzese” non è il solo paradosso di questa lunga crisi politica. Iniziata scoppiettante a inizio estate quando due ministri chiave del governo rassegnavano le dimissioni seguite poi da altri 50 membri fra ministri e sottosegretari – decisamente un record –costringendo Boris Johnson a gettare la spugna, la competizione per la leadership del partito conservatore si è trascinata un po’ noiosamente per tutta l’estate.

Degli 11 presentatisi a luglio, un po’ come i Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, i candidati sono stati decimati dalle “eliminatorie” interne al partito. Nella fase finale sono rimasti Rishi Sunak, ex cancelliere dello Scacchiere, “eroe” della gestione della pandemia ma anche responsabile diretto della caduta del governo Johnson e Liz Truss, ministro degli Esteri in carica che, seppur partita come non favorita si è via via assicurata il sostegno dei “grandi elettori” conservatori e di Penny Mordaunt, ultima rimasta in gara prima dello scontro a due.

Il verdetto finale spetta agli iscritti al partito conservatore che a partire dal 1° agosto hanno espresso la loro preferenza con voto postale. Un meccanismo cervellotico, profondamente disrappresentativo, forse anche anti-democratico, molto più simile a un contest televisivo con tanto di televoto finale che a un processo per la selezione della classe dirigente. In pratica, il nuovo primo ministro è stato scelto da un gruppo ristretto di elettori conservatori, principalmente bianchi e protestanti, di mezza età e pensionati, concentrati territorialmente nel sud dell’Inghilterra e non nelle grandi città. Un altro paradosso.

Nostalgie tatcheriane

La platea ristretta ha dunque dettato il tono e i contenuti della campagna. Una platea che peraltro non ha mai fatto mistero di preferire ad entrambi ancora Boris Johnson nonostante i festini durante il lockdown e le bugie ripetute, la disinvoltura con cui ha affrontato le accuse di aggressione sessuali di alcuni suoi collaboratori.

Non c’era storia insomma per Rishi Sunak. In questo perimetro va pertanto interpretata non soltanto l’acredine con cui i contendenti si sono confrontati fra dibattiti televisivi (ben cinque) e incontri con gli iscritti. Un cittadino un po’ distratto dalle vacanze avrebbe infatti potuto pensare che i due non fossero nemmeno membri dello stesso partito.

A parte il sostegno all’Ucraina e una generica adesione ai valori del partito conservatore, peraltro mai esplicitati, tutto divide Sunak da Truss, ma soprattutto la politica fiscale: mentre il primo si è presentato come un moderato e ha puntato sul contenimento dell’inflazione, la seconda ha resuscitato un ultraliberismo âgé riesumando parole-chiave thatcheriane, soprattutto gli evergreen “taglio delle tasse” e “taglio allo statalismo”. Non c’era proprio storia per Rishi Sunak. Non tanto sul merito ma per l’irresistibile appeal che il mito della Thatcher esercita fra i conservatori. Se Boris Johnson si presentava come Winston Churchill, beh, Liz Truss vuol essere la nuova Lady di ferro, con tanto di fotografia sul carro armato come Margaret Thatcher nel 1986 e annessa minaccia di usare l’arma nucleare. L’ennesimo paradosso.

Perché se la ricetta neoliberale si presentava come una assoluta novità negli anni Ottanta e il patriottismo neoconservatore poteva anche avere una valore nel quadro dello scontro bipolare, oggi dopo il thatcherismo e il New Labour ormai di fantomatiche ingerenze dello stato nel ciclo economico da smantellare ce ne sono rimaste davvero poche; e Putin e la guerra in Ucraina sono ancora troppo lontani per rispolverare lo spirito della guerra fredda.

Il nodo Brexit 

Sono altre le tensioni, di diversa natura e hanno tutte a che fare con l’unica questione che non è stata realmente affrontata durante la campagna elettorale: la Brexit. Qui, il (probabile) futuro primo ministro ha una posizione ancora più parossistica: a favore del remain nel referendum del 2016 e passata subito al nuovo corso, Truss ha nei confronti della Brexit il fervore cieco del neo-convertito, acriticamente osservante. Paradossale per un ministro degli Esteri.

Se le promesse elettorali di Truss, così radicali e nazionaliste, a volte quasi da destra sciovinista come ad esempio l’impegno ad usare la marina militare per fermare i clandestini nella Manica o le minacce nucleari o le tensioni con la Francia si trasformeranno in politiche effettive, lo scopriremo ahimè molto presto, già mercoledì quando con tutta probabilità verrà annunciata la composizione del nuovo governo. I primi nomi girano già. Lì si capirà la direzione che prenderà questa paradossale crisi politica. L’unica cosa certa al momento, invece, è quale sia l’eredità del post-populismo di Boris Johnson.

Il nuovo primo ministro eredita infatti una situazione catastrofica con una economia strangolata da un lato dall’aumento dell’inflazione che si prevede possa arrivare al 22 per cento e una sfilza di scioperi che non si vedeva dagli anni Settanta: dai trasporti, agli insegnanti e avvocati, ai docenti universitari, medici e infermieri, ai portuali e operatori ecologici. Dall’altro, un paese sempre più polarizzato e radicalizzato, paralizzato non solo dall’aumento dei costi dell’energia che pare possano arrivare oltre l’80 per cento gettando alle soglie della povertà anche quel ceto medio che è sempre stato la spina dorsale del voto conservatore, ma dove le esportazioni languono, le tensioni in Irlanda del Nord si riaccendono, i rapporti con l’Europa si inaspriscono, l’unilateralismo internazionale sembra essere la nuova dottrina. Certo la pandemia e il conflitto ucraino hanno fatto la loro parte per esacerbare la situazione. Ma è la Brexit all’origine di tutto.

Curioso, infatti, come durante la campagna di agosto la Brexit compariva non tanto e non più come la grande occasione per lo sviluppo futuro – il governo Johnson aveva persino creato un ministero ad hoc per le Opportunità della Brexit – ma anzi veniva presentata come una faticosa conquista da difendere e tutelare. Dopo neanche due anni dalla effettiva uscita del Regno Unito dall’Ue; dopo soli 20 mesi. Ancora un paradosso.

Labour in crescita

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Quello che a partire da mercoledì si augura la stampa inglese, anche quella conservatrice, e soprattutto il Financial Times è un abbassamento dei toni e un ritorno a un approccio più misurato ed equilibrato, più tradizionalmente conservatore. Forse soltanto Keir Starmer e il partito laburista stanno toccando legno e sperano che la situazione non cambi. Il paradosso finale.

Mentre il futuro governo, almeno sulla carta, sembra voler andare ancora più a destra, ancora più testardamente lontano dall’Europa e pensa di potersela giocare da solo nei nuovi scenari internazionali, il paese invece va a sinistra. Quasi la metà degli elettori che hanno votato per i tory alle scorse elezioni sono favorevoli alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, oltre la metà del paese sostiene gli scioperi e le richieste avanzate dal sindacato dei trasporti pubblici, in un recente sondaggio il Labour supera di 15 punti il partito conservatore. Se si votasse domani alle elezioni nazionali, una proiezione di Britain Elects per il New Statesman dà una maggioranza ai Comuni al partito laburista di 22 seggi. Le cose stanno cambiando, winter is coming.

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