Uno dei nuovi attori della politica internazionale in Africa è certamente la Turchia. Il commercio turco è cresciuto considerevolmente con il continente: dai 5 miliardi di dollari nel 2003 agli oltre 25 attuali. Nello stesso arco di tempo la rete diplomatica di Ankara è cresciuta da 12 ambasciate a 49.

Più recentemente l’ingresso nel commercio delle armi (in particolare droni armati) ha fatto fare alla Turchia un altro notevole balzo in termini strategici. Soltanto nello scorso dicembre il governo federale etiopico di Abiy Ahmed si è salvato dalla sconfitta grazie ai droni turchi, quando il fronte tigrino era a non più di 200 chilometri dalla capitale.

Pubblico e privato

Il recente vertice Turchia–Africa, il terzo nel suo genere, si è concluso con una promessa di 15 milioni di vaccini per il continente. La Turchia è ormai ufficialmente coinvolta in varie crisi sub-sahariane oltre a quella libica, come nel Sahel, nell’ex Sahara spagnolo o in Somalia.

In quest’ultimo paese ha la sua più importante base militare del continente, oltre ai 37 uffici militari in tutta l’Africa. La forza strategica turca non risiede tanto nel settore pubblico ma soprattutto in quello privato: con circa 1.500 aziende l’industria della difesa e aerospaziale è in piena espansione, con esportazioni pari a quasi 11 miliardi di dollari nel 2020 (era un miliardo di dollari nel 2002).

Una svolta strategica

Attualmente l’Africa è il quinto più grande importatore di armi del paese. I paesi africani sono interessati non solo ai veicoli blindati ma anche e soprattutto ai droni (Anka-s e Bayraktar Tb2). Per paesi africani sprovvisti di una vera e propria aeronautica, poter comprare droni low cost e facili da usare, è una perfetta soluzione economica e militare.

Ormai questo riguarda quasi tutte le forze armate dell’Africa occidentale alle prese con i jihadisti, oltre che alcuni paesi del Corno e anche Marocco, Tunisia e Algeria. L’esperto di strategia africana Emmanuel Dupuy, presidente dell’Istituto per la prospettiva e la sicurezza in Europa (Ipse), valuta questa situazione come una vera e propria svolta strategica a cui Ankara sta contribuendo.

Approfittare del vuoto

Per molti regimi africani alle prese con ribellioni o con rivolte interne, l’uso dei droni è diventato la perfetta soluzione per mantenersi. La presenza turca sul continente non si limita però al commercio di armi. Secondo Dupuy: «La strategia turca coinvolge diverse dimensioni. Inizialmente, si trattava di aiuti umanitari (in Libia e Somalia), diplomazia e commercio. Ora si sta trasformando in attivismo militare».

La strategia della Turchia ha avuto una prima fase in Somalia, dove è stata costruita la base militare che serve come porta d’accesso all’Africa orientale. Dal 2020 Ankara ha anche addestrato un terzo dei militari somali, affiancando l’Italia. Posta in una posizione strategica nel corridoio commerciale ed energetico del Corno, la presenza turca è stata favorita dal ritiro di attori precedenti, come la Missione dell’unione africana in Somalia (Amisom).

Allo stesso modo l’uscita degli Stati Uniti dalla Libia nel 2019 e la timidezza delle posizioni sia italiane sia francesi, hanno offerto una possibilità d’ingresso alla Turchia nella guerra civile libica, con l’intervento a sostegno del governo di Fayez al Serraj durante l’ultima offensiva di Khalifa Belqasim Haftar.

Sfruttare il malcontento

Per queste ragioni ancora oggi la Turchia afferma che la sua presenza a Tripoli sia legittima. Ci sono anche interessi economici vòlti ad assicurarsi concessioni di gas offshore nel Mediterraneo orientale, contrastando allo stesso tempo l’influenza dei suoi tradizionali nemici mediorientali come gli Emirati Arabi Uniti o l’Egitto. Tutto questo è in linea con la dottrina marittima espansionistica turca chiamata “Mavi Vatan” o “Patria blu”, tanto cara agli alleati di governo di Erdogan.

Nel Sahel sta avvenendo una vicenda simile con il ritiro della Francia, che ha chiuso tre basi militari e concentrato le sue truppe al confine con Burkina Faso, Mali e Niger. Il malcontento politico e il sentimento antifrancese sono stati un vantaggio per la Turchia, che si presenta non come ex potenza coloniale. All’ultimo vertice Erdogan ha dichiarato: «Noi non abbiamo nessun macchia colonialista», anche se la storia dice il contrario.

Un nuovo impero

Ankara ha finanziato la forza regionale G5 Sahel e ha firmato un patto di difesa con il Niger, dove qualcuno crede che sia in procinto di creare una nuova base militare. Sempre secondo Dupuy la Turchia ha altri strumenti in tasca come la società di consulenza internazionale per la difesa Sadat già coinvolta nell’addestramento di mercenari.

Alla base di questo attivismo rimane l’ideologia proposta da Erdogan, neo-ottomana e islamista (del tipo dei Fratelli musulmani): un mix di ultra-nazionalismo e islamismo politico fusi assieme. La politica estera della Turchia ha saputo sfruttare le tensioni sociali, locali e geopolitiche esistenti attorno al Mediterraneo e poi sempre più verso sud, usando anche la guerra per procura fatta mediante contractors siriani o africani.

In cerca di investimenti

Le scelte strategiche di Erdogan sono altresì legate alle crisi interne turche: dopo il tentativo di colpo di stato del 2016, uno degli obiettivi prioritari del leader turco è divenuto lo smantellamento della rete di Fethullah Gülen in Africa. Nel maggio 2021 il nipote di Gülen, Selahaddin, è stato rapito dalle forze di sicurezza turche a Nairobi e riportato in Turchia, indicando quanto sia diventata stretta la cooperazione di Ankara con molti stati africani.

Ne sappiamo qualcosa anche in Italia dove l’aiuto turco ha contribuito alla liberazione di Silvia Romano. Soltanto la crisi economica potrebbe mettere un freno ad una parte delle ambizioni turche in Africa. Gli effetti duraturi dell’attuale crisi della lira turca potrebbero mutare gli obiettivi turchi, com’è parso riscontrare nelle ultime mosse di Erdogan che ha cercato il riavvicinamento ad Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Ankara ha bisogno di nuovi investimenti stranieri e ora li cerca anche tra gli ex avversari. 

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