Chiudere le frontiere e bloccare gli arrivi sulla sponda sud dell’Europa non significa limitare le partenze, ma aumentare il rischio di morire in mare per chi migra.

Nel Mediterraneo centrale, dal 2014 a oggi, secondo il portale Missing migrants dell’Oim, almeno 25.459 persone sono morte o scomparse. La Tunisia è tra le prime nazionalità di arrivo in Italia – nel 2024 l’11,6 per cento circa degli arrivi via mare – e risulta anche tra le prime nazionalità di rimpatrio, per gli accordi milionari chiusi tra i governi di Roma e Tunisi.

Di fronte alle migliaia di morti e scomparsi, però, le famiglie sono lasciate sole. «Dal 2011 a oggi, sono cambiati diversi governi. Ogni volta incontriamo nuove persone. Ogni volta ricominciamo da capo», racconta Latifa Al-Walhazi, presidente dell’Associazione tunisina delle madri degli scomparsi, a Roma per rappresentare la sua organizzazione. Dal 2011 a oggi le istituzioni non sono state capaci di dare risposte. Il fratello, Ramzi, risulta scomparso dal 1° marzo 2011.

Perché suo fratello ha scelto di partire?

Tutto è cominciato con la rivoluzione del 2011. Da quel momento mio fratello ha iniziato a dire che voleva andare in Europa. Aveva finito gli studi ma non aveva un impiego, faceva lavoretti ogni tanto, ma non era soddisfatto. Voleva partire per comprare una protesi a nostro padre, che ha perso la gamba in un incidente sul lavoro.

Abbiamo provato a dissuaderlo, a dirgli che qui i soldi per vivere ce li avevamo. Un parente di un suo amico lavorava come trafficante ed era sicuro partire con lui. Ha avvisato nostro fratello maggiore che sarebbe partito. Mi ha chiamato solo quando era sulla barca e mi ha chiesto scusa.

Riuscivo a sentire tutto: il rumore dell’acqua, le parole dei suoi compagni di viaggio. Al telefono sentivo che erano felici, applaudivano. Mi ha attaccato dicendo che erano arrivati in Italia. Da quel momento non abbiamo più saputo nulla. Per due mesi il suo cellulare continuava a squillare, senza risposta. E poi più nulla. Abbiamo organizzato manifestazioni per chiedere al governo cosa fosse successo loro. Ma niente. In quel periodo molte associazioni organizzavano truffe. Ci chiedevano soldi, promettendo informazioni su dove fossero i nostri familiari. Giocavano con il nostro dolore.

Nel 2016 avete fondato un’associazione.

Un’associazione no profit per mobilitare le famiglie e cercare la verità. Spesso le donne non comunicavano la scomparsa dei figli perché, temendo fosse una cosa illegale, avevano paura di dirlo al governo. Noi raccogliamo le storie e inviamo le informazioni al ministero degli Esteri tunisino, così da scoprire se i figli si trovano all’estero. In alcuni casi siamo riusciti a fare test del Dna. È stata mia madre, insieme ad altre quattro donne, a creare l’associazione. Lo hanno fatto con le loro finanze. Poi ho iniziato anche io a collaborare, per cercare la verità, non solo per me ma per le altre madri che vedevo soffrire.

Perché è fondamentale ritrovare il corpo?

Prima di tutto vogliamo sapere la verità, qualsiasi essa sia, anche se è dolorosa. Ho incontrato molte donne, madri di persone scomparse. I loro figli hanno perso la vita e loro vogliono sapere come. Le madri non sanno nemmeno cosa chiedere a dio: che dio abbia pietà del figlio oppure se pregare per il suo ritorno. Molte famiglie sono state distrutte dalla scomparsa dei loro figli. Perché se sai dov’è il corpo sai dove andare a trovarlo. L’anima di mia madre brucia. Ora deve essere operata per quanto ha pianto. Da allora la nostra gioia non è piena, anche se sono felice per il successo dei miei figli, è una felicità effimera.

La Tunisia è considerata dall’Italia e dall’Ue un «paese sicuro». La maggior parte delle persone rimpatriate dall’Italia è di nazionalità tunisina. Nel 2022, secondo i dati del garante, erano il 71 per cento dei rimpatri. Chi decide di partire?

La situazione in Tunisia è pessima. Io penso non esista l’immigrazione illegale, muoversi è un diritto. Siamo tutti esseri umani e tutti abbiamo il diritto di vivere. In Tunisia la situazione è peggiorata con il governo Meloni che ha chiuso le frontiere. Chi parte e viene intercettato in mare viene riportato in Tunisia, anche chi proviene dai paesi subsahariani che in realtà lo vedono come un paese di passaggio verso l’Europa. Invece rimangono in un limbo.

Ai giovani chiedo spesso come mai vogliono venire qui in Italia. Dicono che in Tunisia non c’è niente da fare e vogliono venire in Europa. Si fanno condizionare dai famigliari che ce l’hanno fatta, sono attratti dai loro racconti. E oggi partono anche ingegneri e dottori. Sanno che non è facile e che c’è il rischio di morire in mare, ma per loro è meglio partire e rischiare che rimanere in Tunisia.

Siete in contatto con altre associazioni?

Sono andata da poco in Senegal e Camerun per incontrare altre organizzazioni. In Tunisia e Senegal se ne può parlare, possiamo avere un dialogo con le autorità e tra noi famigliari. In Camerun, invece, la situazione è peggiore, è illegale parlare delle persone scomparse.

Abbiamo trovato storie devastanti. Inizialmente è stato molto complicato parlare con le famiglie, erano diffidenti. Piano piano ci siamo guadagnati la loro fiducia. E dopo tanto tempo abbiamo abbattuto il muro. Ho raccontato la storia di mio fratello e li ho incoraggiati a parlare dei loro. Di farsi sentire, di organizzarsi e di non avere paura. Bisogna coinvolgere le famiglie e ascoltarle.

A volte ci sentiamo stanchi, a volte arriviamo al punto in cui non riusciamo più ad accettare nulla. Ma le madri ci aspettano, vogliono una risposta.

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