Il 25 febbraio del 2021 i servizi segreti e di sicurezza americani hanno accusato il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman di aver «approvato la cattura o l’uccisione del giornalista saudita Jamal Kashoggi». Oggi, a oltre un anno e mezzo di distanza il Dipartimento di stato americano ha inviato una dichiarazione alla Corte di Washington che giudica sul caso nel quale si afferma che Mohammed bin Salman gode di immunità in virtù del suo nuovo ruolo di primo ministro. 

Secondo i legali del dipartimento alla Giustizia degli Stati Uniti a supportare questa posizione è la «dottrina sull’immunità dei capi di stato consolidata nella normativa internazionale». La difesa era già pronta: «Il decreto reale non lascia dubbi sul fatto che il principe della corona abbia il diritto all’immunità sulla base del suo status», avevano affermato gli avvocati di bin Salman in una petizione dello scorso 3 ottobre nella quale avevano chiesto alla corte distrettuale di Washington di archiviare il caso.

Dichiarazioni che hanno suscitato immediatamente lo sdegno di Hatice Cengiz, compagna di Khashoggi, che su Twitter ha scritto: «Jamal è morto ancora una volta oggi».

La vicenda

Khashoggi è stato ucciso e fatto a pezzi all’interno del consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre del 2018. Quel giorno doveva risolvere alcune questioni burocratiche legate al suo futuro matrimonio con Cengiz ma il regime di Riad ha inviato una squadra di uomini legati ai servizi di sicurezza che avevano pianificato nei minimi dettagli non solo il suo omicidio ma anche il maldestro depistaggio che ne è seguito. Il gruppo comprendeva un medico legale, agenti di intelligence e altre persone che lavoravano per l’ufficio del principe ereditario.

Khashoggi è stato ucciso perché criticava il regime saudita e l’operato del principe ereditario bin Salman scrivendo sulle pagine del Washington Post. Ma anche se il principe saudita ha sempre negato un suoi coinvolgimento nel caso, per i servizi di sicurezza americani non ci sono dubbi: è stato lui il mandante.

Le pressioni

L’Arabia Saudita ha cercato più volte di insabbiare il caso e di fare pressioni per far arenare anche le indagini degli organismi internazionali. Secondo quanto riportava il Guardian nel marzo del 2021, un alto funzionario saudita ha minacciato di morte il funzionario dell’ufficio dell’Onu per i diritti umani che ha condotto un’indagine indipendente sull’omicidio di Jamal Khashoggi. Quel rapporto, così come quello pubblicato dalla National Intelligence, afferma che ci sono «prove credibili» che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e funzionari del regno fossero responsabili dell’uccisione del giornalista del Washington Post.

Dopo la pubblicazione delle considerazioni dei servizi segreti americani l’amministrazione di Joe Biden, insediatasi da poche settimane all’epoca, aveva approvato una serie di sanzioni contro esponenti sauditi ma nelle quali non era incluso il principe bin Salman. Rispondendo alle critiche la Casa Bianca aveva detto che non si trattava di un gesto di “appeasement” nei confronti del monarca, che, in ogni caso, non sarebbe più stato accolto sul suolo americano.

A distanza di un anno e mezzo molte cose sono cambiate. Lo scorso luglio il presidente Biden è volato a Jeddah nell’ambito del suo tour in medioriente. In quei giorni ha avuto anche un incontro privato con il principe ereditario, suscitando lo sdegno della società civile che da anni chiede giustizia per Khashoggi. Oggi, arriva il colpo di grazia. Negli Stati Uniti, bin Salman gode di immunità.

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