L’Algeria è stata una delle tappe cruciali dello shopping italiano del gas, che nelle ultime settimane ha visto protagonisti i vertici del governo e dell’Eni. Proprio l’amministratore delegato del cane a sei zampe, Claudio Descalzi, ha firmato un accordo con Toufik Hakkar, il presidente della società petrolifera algerina Sonatrach, per incrementare di 9 miliardi di metri cubi l’anno la quantità di gas esportata dall’Algeria verso l’Italia. Il tutto nell’ottica di ridurre la dipendenza dalla Russia, dalla quale l’Italia prende circa il 40 per cento del gas.

L’Algeria già prima della guerra in Ucraina era il secondo fornitore del Belpaese – nel 2021 ci ha consegnato 22,6 miliardi di metri cubi di gas, a fronte dei 29 miliardi russi – ed è storicamente uno degli stati dove l’Eni è più presente.

Gas e politica

I combustibili fossili condizionano la politica algerina in vari modi rilevanti. Il settore dell’oil&gas è la spina dorsale dell'economia, conta per il 20 per cento del Pil e per l’80 per cento sulle esportazioni. In termini di mercato, a livello globale l’Algeria è il decimo paese per riserve di gas naturale, sesto per esportazioni di gas e terzo per risorse di shale gas. Al momento fornisce intorno al 12 per cento dei bisogni di gas dell’Eu, terzo paese dopo Russia e Norvegia. È il 16esimo per riserve di petrolio.

«Storicamente, ma in particolare per gli ultimi decenni, un’oligarchia militare si è accaparrata e ha controllato i profitti derivanti dal settore, negando al popolo algerino i suoi diritti democratici ed economici. L’Algeria è ancora governata da una borghesia militare corrotta che non fa gli interessi della nazione e che ha intrappolato il paese in un modello estrattivista e predatorio di sviluppo. Il loro modus operandi è di estrarre risorse naturali solo per l’export», spiega Hamza Hamouchene, attivista e ricercatore algerino del Transnational Institute, di cui è responsabile per il programma sull'Africa Settentrionale, a Roma per un incontro organizzato da ReCommon con le comunità impattate dalle attività dell’Eni in Italia e in altre regioni del mondo.  

Nel 1992, in Algeria un colpo di stato militare cancellò il risultato delle prime elezioni democratiche. «Quello che seguì fu una orrenda guerra che prese di mira i civili, tanto che noi chiamiamo quel decennio il decennio nero, perché fu un periodo orribile della nostra storia. Allo stesso tempo dei massacri perpetrati dall’esercito algerino e da altri gruppi armati, le multinazionali petrolifere e l’Unione europea non furono timide nel fare affari con il regime militare».

Nel novembre del 1996 fu inaugurato il nuovo gasdotto che portava gas in Europa dall’Algeria passando per Spagna e Portogallo, chiamato Medgas. «Tutte queste compagnie e l’Ue avevano un chiaro interesse che il regime repressivo non venisse rovesciato, per cui hanno fatto i loro interessi economici, di fatto facendo sponda alla guerra sporca del regime negli anni Novanta. Invece durante la prima ondata della primavera araba, nel 2010-11, il regime algerino è stato veloce a rispondere ad alcune delle proteste distribuendo petro dollari, dando prestiti senza interessi ai giovani per pacificare la popolazione. Ma allo stesso tempo quei profitti e l’importanza dell’Algeria come paese esportatore di oil&gas sono stati usati per assicurarsi il sostegno dell’Occidente, che così chiude un occhio sulle violazioni dei diritti umani e sulla dittatura», sottolinea Hamouchene. 

Ma nonostante gli sforzi del regime, non sono mancate le proteste, anche molto dure. Nel febbraio del 2019, milioni di persone sono scese per strada chiedendo un cambiamento radicale e democratico, chiedendo giustizia sociale e libertà. Un movimento chiamato hirak, durato due anni e che si è bloccato quando è arrivata la pandemia e la conseguente repressione da parte del governo.

Proprio a seguito di quella rivolta nelle carceri algerine sono stati rinchiuse centinaia di prigionieri politici. Nel novembre del 2019, in seguito all’annuncio che le multinazionali petrolifere stavano chiedendo una legge sugli idrocarburi in favore dei loro interessi e che quella legge sarebbe stata discussa in parlamento, la popolazione si è ritrovata spontaneamente davanti al parlamento per protestare contro il tentativo delle élite corrotte di compromettere ulteriormente la sovranità del Paese, svendendo le risorse algerine.

«Un altro esempio della protesta sociale in atto si è avuto quando l’attuale presidente, Tebboune, a gennaio del 2020 annunciò che l’Algeria avrebbe sfruttato lo shale gas presente nel suo sottosuolo». Gli algerini hanno risposto nelle piazze, scandendo slogan come «fate il fracking a Parigi, non qui». Un chiaro riferimento alle multinazionali francesi come la Total, che ha fruttato una sospensione delle attività di fracking. Anche se, ci spiega Hamouchene, il tema è tornato inquietantemente d’attualità nelle ultime settimane.

La presenza di Eni

In questo contesto così travagliato, la multinazionale italiana Eni svolge un ruolo di primo piano. «L’Eni sta diventando uno dei più grandi investitori stranieri nel nostro paese, se non il più grande. A un certo punto questo ruolo era rivestito dalla Bp, ma ormai credo che sia stata rimpiazzata da Eni. Specialmente perché l’Eni sta per acquisire proprio gli asset petroliferi e del gas di Bp in Algeria. Una situazione simile si è verificata anche in Angola. Eni sta moltiplicando i suoi contratti, accordi e memorandum of understanding con la compagnia nazionale algerina, la Sonatrach. Il suo obiettivo è far diventare l’Algeria un hub dei combustibili fossili, così da garantire la sicurezza energetica dell’Unione europea e nel breve termine soprattutto quella dell’Italia. In termini generali, come ogni altra multinazionale petrolifera, Eni sta cercando una quota più ampia di mercato, che si tradurrà in più profitti e influenza politica».

La cooperazione con la Sonatrach non è solo nell’ambito dei combustibili fossili, perché l’Eni si sta muovendo anche nella direzione delle fonti rinnovabili, espandendo il suo portfolio. 

«Siamo assistendo a un aumento esponenziale di visite italiane in Algeria. Vi daremo 9 miliardi di metri cubici di gas in più. Ovvero il 12 per cento della domanda di gas italiana e un’espansione del 50 per cento della produzione algerina destinata all’Italia. Così si rafforzerà il regime algerino, poi si ribadirà la supremazia del gas nella politica algerina e per finire si intrappolerà il paese nella sua posizione subordinata di esportatore perpetuo di risorse naturali, quando invece c’è la necessità assoluta di promuovere una diversificazione dell’economia, allontanandoci dai combustibili fossili e usando gli investimenti pubblici per sviluppare le fonti rinnovabili» l’amara conclusione di Hamouchene.

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