La Cina, che negli ultimi decenni è stata al centro della globalizzazione, si è trasformata in un paese blindato, cinto da una Grande muraglia anti-Covid. E mentre l’Europa e gli Stati Uniti – gradualmente ma con decisione – riaprono, le frontiere della Repubblica popolare sono destinate a rimanere sigillate. Fino a quando?

Gli stranieri possono entrare solo per motivi di lavoro, purché abbiano trovato posto su uno dei pochi voli disponibili, dopo essersi sottoposti a una serie di tamponi prima e dopo lo sbarco, e aver affrontato una rigida quarantena (a pagamento) di almeno due settimane in strutture ad hoc. Il flusso di businessmen, turisti e studenti che aveva reso la Cina più “internazionale” si è interrotto nel Natale 2019, quando le corsie degli ospedali di Wuhan furono invase dai primi ammalati per il Covid-19.

Secondo i dati dell’ultimo censimento, nel 2020 in Cina c’erano 845mila stranieri residenti: una comunità piccola, nonostante quello 2010-2020 sia stato il decennio durante il quale Pechino ha promosso di più il suo appeal globale. Di questi, solo una parte sono occidentali: veri e propri ponti tra culture, da oltre un anno sono bloccati in Cina, perché uscire significherebbe non poter rientrare. Dati ufficiali non ce ne sono, ma è probabile che negli ultimi mesi in molti siano rimpatriati.

Serviranno mesi

La campagna vaccinale procede: oltre un miliardo di dosi somministrate, il 40 per cento della popolazione (560 milioni di persone) immunizzato entro questo mese; il 70 per cento (chiunque abbia più di 15 anni) per la fine dell’anno. Tuttavia la “immunità di gregge” è ancora lontana. Shao Yiming – epidemiologo del Centro per il controllo delle malattie – ha dichiarato alla tv di stato Cctv che «dato che i nostri vaccini non proteggono al 100 per cento», per impedire a casi importati di accendere nuovi focolai «dovremo completare la vaccinazione dell’80-85 per cento della popolazione».

Dunque bisognerà attendere almeno fino all’inizio del 2022. Nel frattempo – come accaduto negli ultimi giorni per le centinaia di casi di variante Delta scoperti nella provincia del Guangdong – si continuerà a utilizzare il metodo Wuhan (isolamento immediato delle zone interessate dai focolai, tracciamento dei contatti dei positivi).

Una fonte del ministero della Sanità ha anticipato al quindicinale Caijing che in futuro la Cina potrebbe aprire parzialmente a quei paesi dove l’incidenza del virus è più bassa, ma i tempi per il riconoscimento reciproco dei passaporti vaccinali si annunciano lunghi, anche a causa delle tensioni geopolitiche.

L’incognita Olimpiadi

Insomma, la Cina rimarrà chiusa almeno fino a tutto il prossimo inverno, quando, come quelle estive di Tokyo, le Olimpiadi invernali di Pechino (4-20 febbraio 2022), potrebbero essere seguite sugli spalti soltanto da spettatori locali.

Se prima della cerimonia inaugurale lo scontro tra Cina e Occidente non sarà stato raffreddato, i Giochi potrebbero diventare il detonatore di un’altra esplosione di risentimento reciproco, con i cinesi che – senza essersi scrollati di dosso il terribile sospetto, diffuso da Donald Trump, di essere “untori globali” (secondo un sondaggio Economist/YouGov del mese scorso, il 58 per cento degli americani ritiene che l’origine del nuovo coronavirus sia da rintracciare in un laboratorio cinese) – esalteranno le loro imprese sportive, mentre dall’Occidente giungeranno appelli al boicottaggio per la repressione di Hong Kong e dei musulmani del Xinjiang.

Sospesi di fatto gli incontri di persona tra diplomatici, mentre in Cina monta la marea del nazionalismo in risposta alle «ingerenze straniere», aumenterà il rischio di “incidenti” con gli eserciti occidentali e giapponese, soprattutto nel Mar cinese meridionale, in quello orientale e a Taiwan.

Chiusure “popolari”

C’è chi ipotizza che, nel momento in cui vedranno che il resto del mondo riaprirà, anche i cinesi giudicheranno intollerabili le attuali restrizioni. Intanto però la politica seguita dal governo resta popolare. Un sondaggio recentemente pubblicato dal Journal of Contemporary China ha rivelato che la gestione della pandemia ha generato nel 49,2 per cento dei cinesi un aumento della fiducia nelle autorità centrali, rimasta stabile per il 47,6 per cento.

Le speranze “aperturiste” trascurano che sulla vittoria su un nemico che nel mondo ha ucciso quasi 4 milioni di persone e in Cina, ufficialmente, solo 4.636, l’apparato di propaganda del Pcc ha costruito una narrazione (fatta di documentari, telefilm, musica, serie internet, libri, ecc.) che ha inserito l’epica battaglia contro il coronavirus all’interno del discorso che presenta il Partito comunista come unico argine al caos (luàn) delle democrazie liberali.

Ideologia del “coronavirus”

In una Cina ripartita pochi mesi dopo l’inizio del contagio, le immagini e le notizie degli incalcolabili danni umani, sociali ed economici subiti dall’Europa, dalle Americhe e dall’India potranno rivelarsi molto più potenti ed efficaci delle antitesi fin qui utilizzate (guerra-pace, povertà-benessere, conflitto-armonia sociale…) per avvalorare quella che per Xi e compagni è la «superiorità del sistema cinese».

Questa vera e propria “ideologia del coronavirus” costituisce un patrimonio inestimabile di ri-legittimazione per il Pcc. Con Xi Jinping, il presidente che alla diffusione dell’ideologia ha attribuito un ruolo centrale nel suo progetto politico, la necessità di non inficiare – con una ripresa dei contagi in Cina - questa narrazione prevarrà su ogni considerazione economica, sanitaria, sociale.

(AP Photo/Ng Han Guan)

Verso il XX Congresso

Passate le Olimpiadi, in primavera Pechino entrerà in modalità di “massima allerta” in vista del Congresso nazionale del Partito (autunno 2022). Il XX Congresso (quello del Pcus, nel 1956, diede l’avvio alla destalinizzazione, quello del Pci, nel 1991, decise il suo scioglimento), sarà cruciale anche per Xi.

Oltre alla questione della possibile indicazione di un successore del segretario generale che ha ignorato il vincolo consuetudinario dei due mandati alla guida del Partito e si appresta ad assumere il terzo, l’assise permetterà di verificare gli equilibri interni alla leadership (con la scelta dei membri del nuovo Comitato centrale, dell’Ufficio politico e del suo Comitato permanente), al culmine di un decennio in cui Xi ha sottoposto il Pcc a uno stress test senza precedenti dall’era di Mao Zedong, a colpi di una campagna anti-corruzione permanente che ha mandato in galera milioni di funzionari (604mila quelli puniti l’anno scorso), dell’assunzione del controllo da parte del segretario generale di importanti organismi vecchi e nuovi, e dell’ascesa ai vertici di molti fedelissimi di Xi.

Business as usual?

Stando così le cose, non è azzardato ipotizzare una Cina che rimanga chiusa per tutto il 2022. Una prospettiva alla quale si stanno preparando gli operatori economici.

Il Business confidence survey 2021, pubblicato all’inizio del mese, rivela già dal titolo (European companies in China navigate Covid-19, more perilous waters lie ahead) che le aziende europee si stanno adattando a questa nuova normalità. Secondo il rapporto annuale della Camera di commercio dell’Unione europea in Cina, tre su quattro hanno riportato profitti nel 2020, «dimostrando che anche in tempi difficili le compagnie europee sanno adattarsi e avere successo».

La fiducia nel mercato cinese resta forte, «soltanto il 9 per cento considera di spostare altrove un investimento presente o futuro in Cina, il tasso più basso registrato». Tuttavia – prosegue il documento - «con l’aumento delle tensioni geopolitiche, le aziende cercano modi per ridurre la loro esposizione, in particolare nei confronti di possibili interruzioni transfrontaliere in conseguenza della guerra commerciale o della continua separazione tecnologica tra la Cina e l’Occidente».

(AP)

Chiusura

Mentre l’ultimo studio della Camera di commercio degli Stati Uniti in Cina si intitola inequivocabilmente Understanding US-China Decoupling: Macro Trends and Industry Impacts, e analizza quali aree di cooperazione economica «non rappresentano una minaccia per la sicurezza nazionale e dovrebbero per tanto essere mantenute aperte».

Le altre – è la logica conseguenza – potranno essere chiuse. In definitiva “chiusura” sarà la parola che continuerà a caratterizzare il rapporto tra la Cina e gli Stati uniti nei prossimi mesi (e forse molto più a lungo), mentre l’Unione europea, proverà a mantenere aperti con Pechino quanti più canali possibile. Ma le chiusure del coronavirus continueranno a scavare un solco sempre più profondo tra la Cina e l’Occidente.

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