Il bene prevale numericamente sul male, ma non sa fiutare il pericolo

Paolo Rumiz
da “Maschere per un massacro”

«C’è il sole, e c’è quel silenzio apparentemente fermo della campagna, nelle pianure attorno a Srebrenica, piccola cittadina a un centinaio di chilometri da Sarajevo. Qui, nelle ore tra il 10 e il 12 luglio del 1995, molto prima che voi nasceste, le milizie serbo-bosniache agli ordini di un generale che si chiamava Ratko Mladić, nell’ambito di un atto di vera e propria “pulizia etnica”, eseguirono quello che nei tribunali internazionali fu definito un genocidio, il più buio massacro accaduto in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale».

Ho cominciato così una lezione che avevo promesso ai ragazzi all’ultimo anno della scuola primaria in cui lavoro. Faccio il reporter ma anche il maestro, e ho sempre cercato di portare qualche “pezzo di mondo” in classe, di far incontrare entrambe le mie professioni.

Ho raccontato ai ragazzi dei migranti in Messico che salgono sulla “Bestia”, il treno merci con cui sperano di raggiungere gli Usa per fare domanda di asilo. Ho parlato dei bambini nei campi profughi di Beirut, dei loro “colleghi” nelle favelas di Mumbai, della strage di Bhopal del 1984, in India. Ho sempre creduto che valesse la pena “alzare l'asticella”, e il più delle volte ho capito d’aver fatto bene, perché la risposta è sempre stata eccezionale.

Una donna sopravvissuta al massacro di Srebrenica piange durante una protesta a Sarajevo, l'11 giugno 2007 (foto Ansa)

L’elaborazione di un senso

Così ho raccontato ai bambini che nel giro di quei due giorni, a Srebrenica, 8.372 musulmani di sesso maschile e in età compresa fra i 15 e i 65 anni furono sterminati (a volte con fucilazione a volte con sistemi ancor più abominevoli) e sepolti in fosse comuni. Più volte gli stessi corpi furono spostati da un punto a un altro nel tentativo di occultare fatti e prove.

Il 13 luglio, poche ore dopo, altri 300 musulmani che avevano trovato riparo a Potočari, paese nei pressi di Srebrenica, presso il compound dei caschi blu olandesi della Nato, subirono la stessa sorte. Perché i caschi blu li allontanarono dalla base e serrarono i cancelli, asserendo che non vi era più spazio sufficiente e che comunque non vi era alcun pericolo.

Non racconto ai ragazzi ogni dettaglio, soprattutto quelli più estremi, ma cerco di fargli arrivare comunque il senso e lo scandalo di quanto successo. E mi accorgo che parlando a loro, cercavo di mettere a fuoco quanto avevo visto e vissuto. Come se fossero il tramite tra me e la Storia, tra l’accaduto e l’elaborazione di un senso.

Nella campagna, nel caldo, col trascorrere delle ore, dopo aver camminato tra i vialetti del cimitero, del memoriale, dopo essere stato in paese, aver pranzato al tavolino di un bar, dopo aver visitato e percorso in lungo e in largo il grandissimo hangar dove era situato il compound della Nato, ora museo, cresceva dentro di me una domanda: come è stato possibile? E come si può raccontare il dolore della Storia? Come lo si può fotografare, oggi?

Tre immagini

Facciamo alcuni passi indietro. Ci sono tre immagini, fra le tante, che mi inorridiscono e che ho provato a trasferire ai bambini.

La prima: è l'11 luglio, una qualche televisione sta intervistando Mladić. Il generale parla a dei bambini, tra i prati, distribuisce caramelle, e li rassicura a proposito dei loro padri (musulmani): sono al sicuro, dice ai bimbi, non gli verrà torto un capello, presto torneranno a casa. Mentre parla, a pochi metri da lì, il massacro ha già avuto inizio, e i padri di quei bambini vengono sterminati in quello stesso momento.

Ratko Mladić mentre beve assieme al comandante del contingente olandese dei caschi blu, colonnello Thom Karremans (foto Wikimedia)

La seconda immagine è una fotografia pubblica: è il 12 luglio 1995, giorno nel quale sono accaduti i fatti di Srebrenica e il giorno precedente a quelli di Potočari. Il protagonista è nuovamente Ratko Mladić. Sta bevendo assieme al comandante del contingente olandese dei caschi blu, colonnello Thom Karremans.

Entrambi in abiti militari. Uno è lì a sterminare, l’altro sarebbe lì a porre una qualche forma di difesa, in nome dell’Europa. L’Europa che nel 2012 riceve il premio Nobel per la pace perché «ha contribuito all’avanzamento della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa» (dal testo sulla motivazione del premio). Invece che attaccarsi, Mladić e Karremans si bevono un bicchiere insieme, in pace, loro due.

Karremans, di fatto, lasciò la base dei caschi blu nelle mani di Mladić, quindi permise ai militari serbi di procedere alla deportazione forzata di uomini bosniaci dalla città di Srebrenica a Potočari, divenuto poi da luogo di protezione per i musulmani a teatro di un massacro. Quando Mladić lo accusò di avere richiesto il bombardamento da parte delle forze Nato, Karremans si difese pronunciando una frase subdola, che infatti molti ricordano con indignazione: «Io sono solo il pianista. Non sparate al pianista».

Esiste un video che riprende la scena. Nel momento in cui Karremans lascia la base di Potočari, Mladić gli consegna una lampada da tavolo come regalo per la moglie (Karremans attraversava in quel periodo una crisi con la moglie, uno dei tanti motivi per cui il suo diretto superiore, generale Hans Couzy, dichiarò in più di un’occasione che Karremans non sarebbe stato adatto a fronteggiare una situazione come quella di Srebrenica).

La terza immagine è rappresentata dalla figura della figlia femmina di Mladić: Ana. Ana Mladić si tolse la vita con un colpo di pistola la notte del 24 marzo 1994, all'età di 23 anni. Per molti versi il gesto (di per sé insondabile) del suicidio rimane un mistero irrisolto, anche se probabilmente Ana, dopo avere scoperto che la “stella” che per lei e per la sua vita rappresentava il padre era una fandonia, cadde in uno stato di profonda angoscia e prostrazione.

Durante e dopo un viaggio post laurea (in medicina) a Mosca, assieme ad alcuni amici, molti dei quali bosniaci musulmani, lontana dalle censure che la “proteggevano” in Serbia, Ana conobbe passo passo “la verità”, giorno dopo giorno. A questo va aggiunto un ulteriore fatto, altrettanto orribile: il soldato Dragan Stojkovic, l’uomo che amava e con cui aveva una relazione, osteggiata dal padre Ratko, venne mandato a morire al fronte proprio da quest’ultimo.

Perché?

Racconto ai ragazzi che ci vollero 22 anni e 4 mesi (di cui 15 di latitanza), da quel 11 luglio 1995, prima che il 22 novembre 2017 Ratko Mladić, il macellaio del più grande genocidio avvenuto in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale, venisse condannato all’ergastolo dal tribunale penale internazionale.

Ufficialmente colpevole di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, per aver avuto un ruolo da protagonista in un’associazione criminale con lo scopo di eliminare la popolazione non serba dalla Bosnia, per operazioni di pulizia etnica, responsabilità in stupri di massa, stermini, e per aver avuto un ruolo decisivo nel bombardamento d’artiglieria effettuato dalle forze serbe di Bosnia, contro la capitale bosniaca Sarajevo, nei mesi di assedio che portarono alla morte di diecimila civili.

Perché parlare di Srebrenica, oggi, a dei ragazzi? La prima risposta è questa: perché è necessario. Ancora e comunque. Sono passati 30 anni, ma non tutte le persone massacrate a Srebrenica sono state ritrovate, non tutte sono state identificate, molti non hanno ancora un nome.

Nei giorni in Bosnia, e in particolare al memoriale di Srebrenica, mentre guardavo i filmati in cui il generale Mladić passava caramelle ai bambini e gli diceva di stare tranquilli, ho faticato a comprendere che cosa dovevo pensare, che cosa potevo pensare. Che cosa fosse giusto. Come avrei dovuto guardarlo, quel dolore, quella Storia, come avrei potuto fotografarlo?

Se questo è un uomo

Le ore, a Srebrenica, ti portano a sentire una sorta di vicinanza. Mi tornano alla mente le parole di Primo Levi quando una giornalista gli domandò quale fosse l’uomo cui si riferiva quando scrisse Se questo è un uomo: lo sterminatore o lo sterminato? Con la sua voce precisa e gentile, rispose che pensava a entrambi. È questo un uomo, colui che finisce e muore, dentro ai campi, nelle camere a gas, nella tortura, nella cancellazione della propria identità?

È questo un uomo, colui che pianifica una fine, colui che progetta sterminio, che disegna realtà su basi etniche, religiose, genetiche, e su queste premesse permette – e si permette - l’indicibile?

Mentre stavo per uscire dal capannone adibito a memoriale, entrò una scolaresca. Una quarantina di ragazzi poco più grandi dei ragazzi che ho di fronte. Cominciavano il loro giro. Sarò ingenuo, ma ho pensato che in qualcuno di loro, come in qualcuno dei miei allievi, si sarebbe formato l’anticorpo che si attiverà le prossime volte che qualcuno userà parole come “razza”, o “nazionalismo”, o “popolo eletto”, o “predestinazione alla sconfitta”.

Passato, presente e futuro

Mi son fermato un istante. Li osservavo da dietro, mentre guardavano fotografie, anche molto dure, mentre leggevano documenti. Mi è venuta voglia di seguirli e fotografarli, a loro volta, mentre si ponevano, ciascuno a modo proprio, come stavano facendo i miei ragazzi, di fronte alla Storia, al Male, al cinismo. A quello di cui avevo parlato in classe.

Scrutare le reazioni di quei ragazzi e quelle dei miei allievi, mi ha dato modo di pensare le cose in un altro modo, di non riferirmi al passato come a un inevitabile futuro che si ripeterà. In quel mentre mi sono chiesto qual è il punto in cui il passato riesce a divenire quel presente che noi siamo. Perché solamente in quel momento, lungo ma finito, ciò che verrà potrebbe svoltare. Potremo svoltare.

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