Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022, l’opinione pubblica italiana sta gradualmente acquisendo una maggiore familiarità con le questioni legate alla politica internazionale, in particolare con gli aspetti strategici, tattici e industriali dei conflitti militari. Tra questi, c’è un ampio dibattito sulla difesa comune europea. Tuttavia, questo dibattito si basa spesso su affermazioni superficiali, incomplete o errate. Questo articolo cerca di sfatare tre miti sulla difesa europea.

Tra esercito e difesa

Il primo mito da sfatare è il riferimento al fantomatico “esercito europeo” e la confusione tra quest’ultimo e la difesa europea. Qualche cenno storico aiuta a comprendere lo stato attuale del dibattito. 

Nel maggio 1952, i capi di governo di sei paesi europei (Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo) firmano a Parigi il trattato costitutivo della Comunità europea della difesa (Ced). L’obiettivo della Ced era creare un vero e proprio esercito europeo, con un bilancio comune e la mobilitazione di almeno quaranta divisioni costituite da 1.300 unità ciascuna.

Nel 1954, il trattato non viene ratificato dall’Assemblea generale francese e il progetto, parallelamente al fatto che l’Europa veniva gradualmente assorbita dall’Alleanza atlantica, perde il suo slancio iniziale. Dopo la Ced, è errato riferirsi a un esercito europeo. La politica di sicurezza e difesa europea, rilanciata con l’accordo di St. Malo dal presidente francese Chirac e dal primo ministro britannico Blair, era molto meno ambiziosa.

I cosiddetti headline goals del 2003 (poi rilanciati nel 2010) impegnavano gli stati europei a raggiungere e mantenere capacità tali da schierare rapidamente (entro sessanta giorni) e per periodi di missione anche prolungati (fino a un anno) fino a quindici brigate per un totale di 50mila-60mila uomini. Gli headline goals non sono però mai stati implementati, e la politica di difesa europea ha ripiegato su battaglioni tattici di circa 1.500 militari ciascuno (anch’essi, peraltro, mai mobilitati).

La recente bussola strategica europea prevede la creazione di una forza d’intervento rapido di 5mila uomini, che dovrebbe essere operativa entro il 2025. Per fare un semplice confronto, l’Italia ha un esercito di circa 162mila unità. A parte il fatto che in nessun documento strategico europeo si parla della volontà di creare un esercito europeo, queste cifre rendono evidente che utilizzare il termine esercito europeo è inappropriato. Sarebbe più corretto, quindi, riferirsi a una politica di difesa europea, composta da tre dimensioni principali: una dimensione politico-istituzionale (legata alle decisioni prese dagli stati membri in seno al Consiglio europeo), una dimensione operativa (l’Europa ha venticinque missioni attive in giro per il mondo) e una dimensione industriale (progetti di cooperazione nello sviluppo congiunto di sistemi d’arma).

Gli ostacoli

Il secondo mito da sfatare è che lo sviluppo di una capacità di difesa comune europea dipenda, principalmente, dalla volontà politica degli stati membri di avanzare su questo tema. Una volta risolte le questioni politiche tra gli stati membri (che indubbiamente ci sono e sono rilevanti), le intenzioni politiche si potranno tradurre in ambizioni militari.

Questo assunto è soltanto parzialmente vero, e il dibattito pubblico spesso sottovaluta gli aspetti tecnici e le alte barriere all’ingresso, operative e industriali, per condurre operazioni militari in larga scala. Anche se esistesse una volontà politica chiara di procedere per una difesa comune, questa non si rifletterebbe automaticamente e rapidamente in capacità operative e industriali. Come suggeriscono le difficoltà russe in Ucraina, condurre operazioni militari richiede uno stretto coordinamento tra forza di terra, di mare e forze aeree, e una complessa integrazione di sistemi d’attacco con sistemi di difesa antiaerei, sensori, e comunicazioni satellitari.

Lo studioso di studi strategici Stephen Biddle mostra come il fattore chiave della guerra moderna sia l’impiego della forza e il complesso insieme di tattiche e procedure che comportano «copertura, occultamento, dispersione e soppressione del fuoco nemico», nonché coordinamento di piccole forze di terra con la necessaria copertura aerea. A partire dalla guerra nell’ex Jugoslavia negli anni Novanta, le forze europee sono dipendenti dagli Stati Uniti per capacità militari fondamentali quali il comando e il controllo, l’intelligence e la sorveglianza satellitare, nonché per il trasporto e rifornimento aereo. Inoltre, la difesa europea non dispone ancora di un suo quartier generale per la pianificazione e il controllo delle proprie operazioni. L’intervento militare anglo-francese in Libia nel 2011 è un esempio paradigmatico delle difficoltà che gli stati europei incontrano nel coordinare operazioni militari congiunte.

C’è poi il problema dell’allineamento dei sistemi d’arma necessari per operare. L’industria europea della difesa è una delle più avanzate al mondo, ma soffre ancora di una forte frammentazione dell’offerta e della domanda (non esiste un mercato unico della difesa). Questo non significa che la difesa europea sia un obiettivo di per sé irraggiungibile o che la volontà politica degli stati membri sia irrilevante. La volontà politica è una condizione necessaria ma, purtroppo, non sufficiente per essere facilmente tradotta in capacità operative o industriali adatte alla guerra moderna. Ci vorrà tempo e una non facile, né tantomeno scontata, integrazione militare e industriale.

Un punto di partenza

L’ultimo mito da sfatare riguarda l’idea che la difesa comune europea sia un obiettivo in sé. «Serve una maggiore integrazione europea nel campo della difesa» è un’affermazione che sentiamo e leggiamo spesso, sia in Italia che altrove. La difesa europea, o più precisamente una maggiore cooperazione tra stati europei in ambito di difesa, sembra infatti una scelta condivisibile e di buon senso. Non a caso, secondo l’ultimo sondaggio dell’eurobarometro, l’81 per cento dei cittadini dell’Ue è favorevole a una politica di difesa e sicurezza comune tra gli stati membri e l’85 per cento ritiene che la cooperazione in materia di difesa a livello europeo debba essere rafforzata.

Il problema di questa visione, e delle domande poste ai cittadini europei dall’eurobarometro, è che lo sviluppo di una difesa europea è un mezzo per raggiungere certi obiettivi politici o strategici e non, di per sé, un fine politico. In altre parole, bisognerebbe capire cosa eventualmente farne con una difesa europea. Essa sicuramente servirebbe per proteggere il territorio europeo da eventuali minacce, ma, mentre è facile definire una possibile invasione armata del territorio europeo come una minaccia, trovare un consenso europeo su altri tipi di “minacce” è più complesso. Ad esempio, la politica di difesa europea dovrebbe essere utilizzata per frenare l’immigrazione clandestina? La politica di difesa europea potrebbe avere un ruolo nel combattere il cambiamento climatico? E se sì, come? Se ci fosse stata una difesa comune europea (o persino un esercito europeo), come avremmo affrontato l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia? Diversamente da oggi o in modo simile?

Questo è difficile dirlo ma, di per sé, la politica di difesa europea non può essere decontestualizzata dagli obiettivi più ampi dell’Unione, sia a livello politico che economico. Lo sviluppo della difesa europea è un punto di partenza, non un punto di arrivo, per definire gli obiettivi strategici europei.

La questione della difesa europea è molto complessa, ma è positivo che se ne parli sempre più spesso nel dibattito pubblico italiano. Tuttavia, per farlo correttamente è necessario smontare questi tre miti: il fantomatico esercito europeo, la volontà politica come forza necessaria e sufficiente per la difesa europea, e il fatto che quest’ultima sia spesso considerata come un obiettivo politico in sé, piuttosto che come un mezzo per raggiungere gli altri obiettivi politico-strategici dell’Unione.

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