Nonostante un contesto apparentemente più favorevole, segnato da un clima più costruttivo rispetto al passato, alla vigilia dell’incontro a Mar-a-Lago, sull’esito del faccia a faccia tra Volodymyr Zelensky e Donald Trump che avverrà oggi (quando in Italia sarà già notte) non ha osato scommettere nessun analista: troppa patina di imprevedibilità, troppe dosi di incertezza per qualsiasi previsione.

In volo verso la Florida, il leader ucraino ha tracciato le «linee rosse», quelle che né lui né l’Ucraina valicheranno nel tentativo di trovare una soluzione al conflitto: Kiev non accetterà di cedere i suoi territori, né la centrale nucleare di Zaporizhzhia, e continuerà a pretendere solide garanzie di sicurezza. Senza di esse, sarà impossibile anche pensare di organizzare referendum o elezioni.

Il minaccioso monito di Putin anche ieri è arrivato per spegnere ogni congettura positiva: se Kiev non vuole chiudere la partita bellica «pacificamente, risolveremo i problemi con l’operazione militare speciale».

Al distretto militare centrale il presidente ha celebrato la presa di Hulyaipole: «Crea condizioni favorevoli per proseguire l’offensiva e liberare completamente la repubblica di Donetsk».

I missili di Mosca

A Palm Beach, ha anticipato intanto Zelensky, si parlerà di certo di ricostruzione dell’Ucraina: per rimetterla in piedi in sicurezza, favorire il ritorno dei rifugiati, per aumentare posti di lavoro, aspettative di vita e Pil pro capite, ci vorranno «700-800 miliardi di dollari, esiste anche una strategia che prevede una somma maggiore, ma non voglio ancora entrare nei dettagli» ha asserito, precisando che con gli alleati si discute di un fondo per la ricostruzione, uno per lo sviluppo e una piattaforma di investimenti sovrani.

Mentre volava verso gli Stati Uniti, il presidente si lasciava però indietro due scie impossibili da ignorare: una di fuoco – quella provocata dagli attacchi russi che hanno funestato il paese – e un’altra fatta di intercettazioni e scandali, legati alle nuove indagini della Nabu (Ufficio nazionale anticorruzione), destinate a scompigliare nuovamente l’ordine e l’equilibrio degli scranni della Rada.

Per dieci ore Mosca ha martellato Kiev con i suoi ordigni, ferendo ventotto civili, tra cui due bambini, e uccidendo una donna a Bila Cervka, cittadina nei pressi della capitale, ha riferito il sindaco Vitali Klitschko. Per la pioggia di fuoco del Cremlino, che ha colpito edifici e palazzi con cinquecento droni Shahed e quaranta missili, tra cui Kinzhal, anche i jet polacchi si sono levati in volo.

Le fiamme scatenate dai balistici russi hanno avvolto la rete energetica del paese, lasciando al gelo e al buio un milione di case a Kiev, dove, come nel resto d’Ucraina, la vita è cadenzata ormai dal freddo sotto zero, oscurità e black out programmati.

È un fuoco che dimostra come «la Russia non vuole porre fine alla guerra e che il mondo deve fare di più per fare pressione» ha detto il ministro degli Esteri, Andrij Sybiha.

Mosca ultimamente non tace, appare meno avara di parole e proposte del solito dopo oltre 1.400 giorni di guerra, ma chi parla davvero per lei e per le sue reali ambizioni sono razzi e proiettili. «I rappresentanti russi stanno intrattenendo lunghe conversazioni, ma in realtà sono i Kinzhal e gli Shahed a parlare per loro» ha detto Zelensky chiedendo ulteriore pressione contro la Federazione a Washington e Bruxelles: «L’America ha questa opportunità, l’Europa ha questa opportunità».

L’inchiesta per corruzione

Quelle provocate dalle esplosioni delle bombe russe non sono state però le uniche scosse che ieri hanno attraversato la capitale: gli investigatori della Nabu hanno reso noto con un comunicato pubblico di aver «scoperto un gruppo criminale organizzato, che include attuali membri del parlamento» che «ricevevano sistematicamente benefici illegali in cambio dei loro voti».

Un nuovo elenco di deputati ucraini sospettati di tangenti sta per emergere: i loro nomi sono ancora segreti, ma lo rimarranno ancora per poco, hanno assicurato gli investigatori che ieri hanno perquisito i loro uffici.

Con la sua delegazione – composta dal segretario del Consiglio per la sicurezza nazionale e Difesa Rustem Umerov, il ministro dell’Economia Oleksiy Sobolev, il capo di Stato Maggiore Andri Hnatov, il consigliere presidenziale Oleksandr Bevz e il vicepremier del dicastero degli Esteri Serhiy Kyslytsia – Zelensky ieri ha fatto tappa in Canada per incontrare ad Halifax il premier Mark Carney.

Insieme a lui, con i Volenterosi, ha partecipato a un incontro da remoto per cercare una chiave di volta per la tregua. Al meeting ha partecipato anche la premier Giorgia Meloni. In una nota palazzo Chigi ha ribadito la necessità di avere un’unità di vedute tra Stati Uniti ed Europa, in questo momento delicato. Carney ha promesso due miliardi e mezzo di dollari canadesi per il sostegno di Kiev, ricordando però che serve anche altro per la pace: «Una Russia disposta a collaborare». Cioè, una Russia che al momento non c’è.

Al momento c’è solo Trump, che ha già chiarito di credere di avere diritto e potere dell’ultima parola di questo conflitto; ci sono le sue dichiarazioni di due giorni fa, che qualcuno ha già letto come manifesto delle sue intenzioni: «Zelensky non avrà niente finché non lo approvo io».

© Riproduzione riservata