Ho visto cose, durante la settimana convulsa di votazioni per eleggere il presidente della Repubblica. Cose che hanno raccontato il disagio e l’incapacità della politica di fronte alla possibilità concreta di portare una donna al Quirinale, prima che l’accordo ricadesse sul bis di Sergio Mattarella.

Ho visto Matteo Salvini – lo stesso leader che ha esposto ragazze minorenni all’odio social, che ha sostenuto la controriforma sul diritto di famiglia di Simone Pillon, che pochi anni fa da un palco esibiva una bambola gonfiabile e lanciava l’hashtag #sgonfiaboldrini – dare lezioni sulla «parità di genere» nelle istituzioni.

Ho visto Giorgia Meloni – alleata delle campagne antiabortiste di ProVita in Italia, e del Pis polacco con le sue feroci politiche antifemministe in Europa – spiegare il problema della «latente misoginia» che ostacola le donne. Ma intanto Fratelli d’Italia, quando ha votato in autonomia dal resto del centrodestra, ha scelto due uomini.

Ho visto Beppe Grillo – il garante del Movimento 5 Stelle di cui non si contano gli attacchi sessisti a donne di ogni parte politica, incluse quelle del suo partito – salutare, nella candidatura di Elisabetta Belloni, la «Signora Italia».

Ho visto l’opinione pubblica progressista tremare di fronte alla possibilità di avere «una donna» al Quirinale nella persona della presidente del Senato, convinta conservatrice e fedele berlusconiana. Elisabetta Casellati è uscita dal gioco con 382 voti, prima vittima sacrificale. Intanto, però, ha conquistato il record di preferenze ottenute da una donna, precedentemente detenuto da Nilde Iotti.

Ho visto il Partito Democratico puntare sul «metodo», rinunciando a fare una candidatura. Così da confermare l’impressione, ormai divenuta senso comune, per cui «solo le destre promuovono le donne».

Ho visto la miseria di una politica maschile che, dopo la fine della prima repubblica, non avendo saputo produrre una classe dirigente all’altezza del compito di «unire la nazione» nella carica presidenziale, ha oscillato tra il riproporre nomi di ultraottantenni e la ricerca del nuovo «fuori dai partiti». Il nome nuovo lo ha rintracciato o tra i profili tecnici o tra le donne – outsider per definizione in una corsa che le ha viste, finora, ostinatamente ai margini – e, in molti casi, in un profilo di donna e tecnica.

Ho visto, così, nomi femminili fatti esplodere come fuochi d’artificio per rianimare le lunghe maratone mediatiche disertate da spettatori annoiati: Elisabetta Belloni, Marta Cartabia, Paola Severino, e altre ancora.  

Sono cose che raccontano l’anomalia di un paese dove il monopolio maschile del potere politico resiste, ma si scontra con la forza del protagonismo delle donne nella società. È per questa anomalia che ha potuto prodursi lo spettacolo della corsa tra leader a intestarsi l’iniziativa della prima presidente della Repubblica.

Ma è per la mancanza di una cultura di genere, per la superficialità e impreparazione con cui si maneggia il tema della democrazia paritaria, per la diffusa convinzione che dire «donna» significhi sacrificare il «merito», che abbiamo potuto ascoltare frasi impacciate come «un presidente donna in gamba, non un presidente in quanto donna».

La figura femminile è stata evocata come salvezza e giocata come diversivo, usata come strumento o carta vincente. Ma infine, in ognuno dei volti che ha assunto, è stata bruciata, come in un rogo liberatorio che, ancora una volta, ha messo l’ordine dei generi al riparo dal cambiamento.

Anche questa volta, sarà per la prossima volta.

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