Passate le amministrative c’è chi guarda già alle prossime regionali. E lo fa con voglia di rivalsa femminile. Ci sono quattro regioni che sperano di arrivare al voto fresche di normativa elettorale sulla doppia preferenze di genere.

Sono Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Sicilia e Valle d’Aosta, le ultime rimaste sprovviste del regolamento per l’uguaglianza tra donne e uomini al voto. Queste non si sono ancora adeguate alla legge nazionale 20/2016, “Rappresentanza donne e uomini nei consigli regionali”, pensata per la parità, ma che di fatto permette alle donne, in netta minoranza, di avere una rappresentanza politica.

Il testo prevede che nessun genere possa essere rappresentato nelle liste elettorali meno del 40 per cento, e introduce la possibilità di esprimere due voti di preferenza, nel qual caso i voti devono riguardare due candidati di sesso diverso.

«In Friuli abbiamo una situazione anomala: nei comuni votiamo con la doppia preferenza, in regione no», dice Dusy Marcolin, presidente della commissione Pari opportunità della regione, dalla quale a luglio è partita una lettera indirizzata ad alte cariche italiane: Sergio Mattarella, Mario Draghi, la ministra alle Pari Opportunità, Elena Bonetti, quella agli Affari regionali, Mariastella Gelmini; ed è arrivata fino ai vertici europei: la presidente della commissione europea, Ursula von der Leyen, e quella alle Pari opportunità, Helena Dalli. Una missiva firmata da tutta la commissione e che ha messo d’accordo membri di partiti distanti tra loro. A oggi nessuna risposta, solo un gran silenzio.

Difficile, visti i precedenti, che parlamento e governo si muovano, se non dietro la pressione del voto regionale. Lo ha scritto a maggio Gelmini in risposta a una sollecitazione dell’associazione Noi rete donne, sottoscritta da giuriste e costituzionaliste: «Senza elezioni a breve termine, l’azione del governo e del mio dicastero non può che essere di tale natura», aveva risposto la ministra dopo aver sollecitato i presidenti di regione.

Fino a un anno fa c’erano altre tre regioni nella lista nera. A ridosso delle elezioni sono state costrette ad adeguarsi, pena un intervento diretto da Roma. Così è stato per Liguria e Puglia, che hanno votato nel 2020. Inutili le diffide, si è dovuto imporre il meccanismo, come prevede l’art. 120 della Costituzione, ed esercitare, come raramente accade, il potere sostitutivo.

Ma non senza polemiche: «La doppia preferenza di genere danneggia il sesso femminile perché normalmente il maschio è più infedele, si accoppia con quattro o cinque rappresentanti del gentil sesso, e si porta il voto di quattro-cinque signore», aveva dichiarato il vicepresidente leghista Roberto Calderoli in discussione al Senato, tra i buh dell’aula.

La Calabria invece riuscì ad adeguarsi in tempo, dopo cinque anni di attesa, con un voto all’unanimità, in memoria della governatrice Jole Santelli. In quell’occasione non erano mancati commossi interventi in aula in ricordo della prima presidente donna nella storia della regione. A conti fatti, dopo le elezioni, la Calabria ha ora il doppio delle donne.

Tutto è strumentalizzato

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In Friuli-Venezia Giulia è presidente Massimiliano Fedriga, considerato il volto nuovo della Lega. Giovane e in aperta rottura con il Carroccio di un tempo, conta però in giunta su molti leghisti della prima ora. Il risultato è un continuo scaricare le responsabilità tra lui e l’assessore alle Autonomie locali, Pierpaolo Roberti, a cui si aggiunge l’immobilismo del Partito democratico, che pure ha avuto la possibilità con la precedente presidenza Serracchiani di cambiare le cose, ma senza successo.

Fedriga, interpellato, non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Intanto la giunta è composta da 42 uomini e solo sei donne, nessuna proporzione di parità. «Voteremo a primavera 2023, fare modifiche adesso non fa specie a nessuno, farlo a fine tempo invece fa bene a tutti: non è un fatto di diritto, ma di pubblicità. Tutto è strumentalizzato. Le pari opportunità sono un campo vincente solo su carta ma non nella pratica», dice Paola Carboni, membro della commissione Pari opportunità del Friuli.

«Spesso siamo associate soltanto alla maternità e mescolate al calderone “giovani”, essere donna e avere i tuoi diritti in quanto essere umano è un miraggio, anche nel 2021». In Valle d’Aosta, dove ci sono quattro elette su 35, non risulta neanche costituita una commissione Pari opportunità in grado di portare attenzione al tema. Inutile il richiamo, come fu per le tre regioni al voto, dell’allora primo ministro Giuseppe Conte.

La volontà in Piemonte, che sembrava esserci subito dopo l’elezione di Alberto Cirio, nel maggio 2019, si è fermata con la pandemia. Ma forse ora qualcosa si muove, sotto una nuova spinta post Covid: «Finalmente l’inizio della discussione sulla legge elettorale è stato calendarizzato per martedì 9 novembre.

I nodi sono molti: listino maggioritario, dimensione dei collegi e doppia preferenza di genere. In particolare, per quest’ultimo punto è importante che l’introduzione avvenga per volontà del consiglio regionale e non per imposizione del governo nazionale. Sarebbe molto più dignitoso», dice Monica Canalis, vicesegretaria regionale del Partito democratico del Piemonte, che ha portato più volte il tema all’attenzione della presidenza Cirio, il quale risponde: «La rappresentanza di genere è uno dei punti su cui tutti convergiamo.

La potestà sulla nostra legge elettorale è del Consiglio, ma è una riforma che certamente affronteremo in questa legislatura, non solo per un obbligo di legge. Serve una giusta rappresentanza di genere e a tutta la politica, che si tratti di donne o di uomini, serve competenza e valore».

La promessa è quella quindi di una nuova legge entro le prossime elezioni che in Piemonte sono previste per il 2024; se non cambierà nulla per l’estate 2023, il rischio è di finire come Puglia e Liguria. Intanto il consiglio conta una minoranza femminile evidente: otto donne su 51 eletti. «Non c’è l’obbligo per l’elettore di usare la doppia preferenza, ma è uno strumento positivo, già collaudato in quasi tutte le regioni italiane e nei comuni sopra i 5.000 abitanti, e ampiamente utilizzato», conclude Canalis.

L’inganno elettorale

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Male invece la Sicilia. La situazione è esplosa a inizio 2021 alla presentazione dell’organo di governo del presidente Nello Musumeci, in cui non figurava nemmeno una donna. «Condivido la necessità di impegnare le donne in politica con ruoli politici, non solo perché sono donne, ma perché al di là del genere devono fornire competenze, capacità ed entusiasmo», si è giustificato Musumeci.

Mentre l’Ars, l’assemblea regionale, ne conta 18 su 70 deputati. A luglio c’è stato un tentativo di modifica andato in fumo per scontri tra partiti sul testo da considerare d’elezione. Meccanismi complessi che investono le regioni a statuto speciale e che allungano i tempi nella maggior parte dei casi. C’è però chi è critico nei confronti del regolamento, che avvantaggerebbe le donne solo in parte.

«La doppia preferenza è un meccanismo che può aiutare le donne a essere più rappresentate e trainate, anche se a volte sono gli uomini ad approfittarne. Non è sicuramente la soluzione a tutti i mali», dice Marcolin. Infatti vige ancora la consuetudine di associare il nome della donna a quello di un uomo. Così le liste sono costruite in base a quanto una candidata darà supporto al candidato a cui è accoppiata.

Sommando i voti, alla fine dei conti, è il candidato uomo a mantenere una posizione certa. «Un autentico inganno elettorale ammantato della retorica del “femminismo corretto”», aveva scritto sull’Huffington Post Massimo Teodori, storico, scrittore ed ex parlamentare tra gli anni Settanta e Ottanta per i Radicali. I risultati però sono chiari: basta guardare come cambia la composizione dei consigli una volta inserita la doppia preferenza: senza, le donne in regione non arrivano.

E c’è chi questa voglia di passato la applica pure, come la provincia di Trento, dove è in discussione, con due diversi disegni di legge, l’abolizione della doppia preferenza di genere per tornare a un sistema con tre preferenze.

A trainare la marcia indietro c’è la Lega, secondo cui questo è un meccanismo ideologico, che limita la libertà dell’elettore: «Se le donne sono in minoranza significa anche che le donne votano gli uomini», la sintesi leghista. Opposta la posizione del Partito democratico: «Una ferita che peserà sulle future generazioni che dovranno subire ancora la cultura patriarcale e maschilista».

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