Martedì 14 ottobre la nostra Nazionale affronterà a Udine quella israeliana in una gara valida per le qualificazioni ai Mondiali di calcio del 2026. Davanti alla tragedia di Gaza e nonostante l’accordo per la tregua di questi giorni, di cui ancora non si conoscono tutti i dettagli né tantomeno la sua reale applicazione sul campo, in molti chiedono di escludere le squadre e gli atleti del paese dalle competizioni internazionali.

Negli ultimi mesi la richiesta è arrivata da più parti, sia nel mondo sportivo-accademico che a livello politico. L’appello più importante è stato quello della Spagna, che tramite il premier Pedro Sanchez ha addirittura minacciato di non presentarsi ai Mondiali americani del prossimo anno in caso di qualificazione di Israele. Mentre alcune indiscrezioni pubblicate dal Times parlavano di un’imminente riunione del comitato esecutivo dell’Uefa per prendere una decisione in questo senso, almeno per quanto riguarda le competizioni europee. Ma a quelle voci non è corrisposto alcun fatto concreto, anzi, sono fioccate le smentite.

Davanti a un dibattito molto sentito nel nostro paese, abbiamo chiesto a Lia Capizzi e Giulio Cavalli di scrivere perché, a loro modo di vedere, questa partita vada giocata ugualmente oppure no. Ecco di seguito i loro punti di vista.

Sì, l’Italia può lanciare un messaggio giocando

di Lia Capizzi

La partita che nessuno vorrebbe giocare ma che è un dovere giocare. La richiesta del sindaco Alberto Felice De Toni di rinviare il match è stata rispedita al mittente dalla Fifa. Il primo cittadino di Udine era in tribuna il 14 ottobre 2024 per la vittoria in Nations League dell’Italia per 4-1 contro Israele. All’epoca duemila manifestanti pro-Palestina avevano sfilato lungo le vie del centro, allo stadio erano stati 12.000 gli spettatori. A distanza di un anno esatto la curva di pericolosità si è impennata.

L’intesa appena siglata tra Hamas e Israele, sulla base del piano di pace presentato dal presidente americano Donald Trump, non modifica il grado di rischio: altissimo. Massima allerta e il rafforzamento delle misure di sicurezza per il timore di infiltrazioni di frange violente nella manifestazione pro-Palestina in programma nel pomeriggio. Una partecipazione annunciata tra le seimila e le diecimila persone per il corteo che partirà dalle 17:30 lungo un percorso nel centro della città, a debita distanza dal Blue Energy Stadium. Sono poco meno di cinquemila i tagliandi venduti, per uno stadio che ha una capienza di 25.000 spettatori.

Le facce e le parole degli azzurri tradiscono una evidente difficoltà. «Sono papà da poco, fa male vedere le tragiche immagini dei bambini di Gaza, sentire quelle notizie. Però è una situazione più grande di noi, non decidiamo noi se giocare o meno», parla il capitano Gigio Donnarumma. Possiamo accusare gli azzurri di mancanza di coraggio o menefreghismo? È oltremodo pretestuoso biasimare i calciatori dell’inerzia o dell’incoerenza dei loro rappresentanti istituzionali. Fifa e Uefa, così come il Cio, negli ultimi mesi hanno risposto picche alle pressioni di escludere Israele dalle competizioni internazionali, in contrasto con la decisione che avevano preso invece nel 2022 di bandire la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina.

«L’Italia fa parte della Uefa e il Coni appartiene al Cio», il sillogismo del presidente del Coni Luciano Bonfiglio racchiude il nocciolo della questione. È utopistico pensare che un eventuale boicottaggio di Italia-Israele risolverebbe qualcosa. Come conseguenza unica e immediata ci sarebbe invece il rischio di danneggiare sportivamente il nostro calcio.

Perché allora giocare un match seppure con tali pressioni enormi, con più persone fuori dallo stadio che dentro? La schiettezza non fa difetto a Gennaro Gattuso: «Mi fa male al cuore vedere quanto sta accadendo a Gaza. Però noi questa partita dobbiamo giocarla altrimenti perdiamo 3-0 a tavolino». Il cittì riporta al centro la questione sportiva. L’Italia ha guardato da casa le ultime due edizioni dei Mondiali, abbiamo ampiamente riflettuto sulle generazioni che dal 2014 non hanno mai tifato l’azzurro in una Coppa del mondo. L’attuale situazione del girone di qualificazione è traballante, la Norvegia appare imprendibile e gli azzurri devono conquistare il secondo posto per sperare nei playoff.

A Oslo sabato sera, pur tra ingenti misure di sicurezza, si è disputata la sfida tra Norvegia e Israele. L’incasso è stato devoluto alle organizzazioni no profit impegnate a Gaza. La Figc si è attivata per una scelta analoga.

Lo sport ha il potere di mandare messaggi, anche giocando. La capitana dell’Italia femminile Elena Linari ai recenti Europei ha indossato la fascia arcobaleno, il resto delle azzurre ha esibito un polsino bianco con la scritta “Peace”. La Nazionale di Gattuso ha l’occasione di lanciare il proprio messaggio, pur giocando. E sfruttando proprio la visibilità massima del match di Udine.

No, non basta un pallone per cancellare i crimini

di Giulio Cavalli

Si può giocare una partita di calcio contro Israele in un momento così? Mentre le bombe si sono fermate per volontà altrui e non per pentimento, mentre la tregua imposta da Donald Trump prova a farci credere che la guerra sia finita e la coscienza archiviata, la Fifa si prepara a fischiare il calcio d’inizio come se nulla fosse. È difficile capire dove finisca l’ingenuità e dove cominci la complicità.

Da giorni i racconti dei cittadini italiani tornati dalle carceri israeliane descrivono pestaggi, privazioni, umiliazioni. Medici e infermieri che portavano aiuti umanitari, giornalisti disarmati, parlamentari europei inginocchiati con la testa china, tutti intercettati in acque internazionali e trascinati in Israele dopo un abbordaggio che il diritto del mare definisce «atto di pirateria».

Il ministro della Sicurezza israeliano, Itamar Ben Gvir, li ha chiamati «terroristi», rivendicando un trattamento “da terroristi”. E nessuno, nel governo italiano, ha sentito il bisogno di rispondere. Ora si parla di stringere la mano a chi ha insultato e maltrattato i nostri concittadini, come se fosse una partita qualunque.

La tregua non cancella nulla. Restano le ordinanze della Corte internazionale di giustizia che impongono a Israele di garantire gli aiuti e fermare le operazioni militari. Restano i mandati della Corte penale internazionale contro Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Restano le accuse di genocidio, le città rase al suolo, le famiglie spazzate via. La tregua trumpiana non è pace: è sospensione tattica, e fingere che basti a ripulire tutto è un insulto al diritto e alla memoria.

La Fifa e la Uefa si sono impegnate a rispettare i diritti umani e a sospendere le federazioni coinvolte in guerre o occupazioni. Lo hanno fatto con la Russia nel 2022, quando il tribunale arbitrale dello sport ha confermato che il calcio non può essere neutrale di fronte ai massacri.

Nel caso israeliano, invece, il silenzio è assordante. L’Israeli football association continua a includere squadre che giocano nelle colonie illegali della Cisgiordania, in violazione del diritto internazionale. Amnesty international e Human rights watch chiedono da anni la sospensione di Israele, ma la richiesta giace nei cassetti di Nyon, dove l’etica si misura in diritti televisivi e contratti di sponsorizzazione.

A Udine martedì si giocherà in un clima surreale. Il sindaco della città, Alberto Felice De Toni, ha chiesto il rinvio. La prevendita è ferma a poche migliaia di biglietti. La questura prepara barriere e controlli. Dentro lo stadio ci sarà il vuoto, fuori la protesta. L’Italia rischia di trasformare un incontro sportivo in un gesto politico: perché chi oggi scende in campo non rappresenta solo una maglia, ma una scelta.

Giocare contro Israele significa normalizzare l’eccezione, far credere che i crimini si possano dimenticare con un fischio d’inizio. Significa tradire gli italiani umiliati nelle carceri, i giornalisti spogliati dei loro strumenti, i medici schiaffeggiati mentre portavano cure. Significa rinnegare la stessa coerenza che il nostro paese rivendicava quando la guerra era altrove.

E poi c’è il valore simbolico. Il calcio è la lingua universale delle masse, la vetrina che costruisce immaginari e legittimità. Ogni inno, ogni stretta di mano, ogni abbraccio a centrocampo pesa più di mille comunicati. Per questo giocare oggi, mentre la giustizia internazionale indaga e i sopravvissuti contano i loro morti, non è un atto neutrale. È un gesto politico travestito da sportivo, un applauso involontario a chi continua a occupare, a umiliare, a negare diritti.

Si può vincere una partita perdendo la propria coscienza?

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