Quanto l’uomo è riuscito ad alterare le terre emerse su cui vive? Una risposta a questa domanda, che pone tanti altri quesiti, è arrivata dal Global Land Outlook: il 70 per cento delle aree libere da ghiacci è stato pesantemente modificato dall’uomo, con conseguenze dirette e indirette su circa 3,2 miliardi di persone e si prevede che entro il 2050 questa quota possa raggiungere il 90 per cento.

Attualmente circa 500 milioni di persone vivono in aree dove il degrado ha raggiunto il suo massimo livello, ovvero la perdita totale di produttività, il che significa “desertificazione”. L’Africa, in particolare la zona che si trova a sud del Sahara, è la più colpita: il 73 per cento delle terre aride coltivabili sono già degradate o già completamente desertificate; ma anche Asia, Medio Oriente, Sud America presentano un alto rischio di degrado del suolo.

Persino paesi fortemente sviluppati, come gli Stati Uniti (soprattutto gli stati centrali e occidentali) o l’Australia, mostrano aree con alto pericolo di desertificazione. Nell’Unione europea, i paesi che si sono dichiarati affetti da fenomeni di desertificazione e da effetti della siccità sono senza dubbio quelli del bacino Mediterraneo: oltre l’Italia, vi sono anche Spagna, Portogallo, Grecia, Croazia, Cipro e Malta, e non sono immuni da analoghi fenomeni l’Ungheria, la Slovenia e la Romania.

Tornando all’Italia, il nostro paese presenta evidenti segni di degrado, che si manifestano con caratteristiche diverse su circa il 28 per cento del territorio, principalmente nelle regioni meridionali, dove le condizioni meteoclimatiche contribuiscono fortemente all’aumento del problema. Gli elementi antropici che contribuiscono sempre più pesantemente alla desertificazione dei terreni sono la perdita di qualità degli habitat, l’erosione del suolo e la frammentazione del territorio.

Nel nord del nostro paese situazioni simili si stanno riscontrando in Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna. Di fronte a una minaccia crescente, conclude il lavoro del Global Land Outlook, è necessario prendere urgenti provvedimenti.

Nel novembre 2021, in collegamento con la “Strategia europea per la biodiversità”, è stata presentata una articolata e ricca “Strategia europea per il suolo” da raggiungere entro il 2030, che contiene iniziative concrete per proteggere e ripristinare i terreni e garantire che siano utilizzati in modo sostenibile.

La nostra galassia

La nostra galassia, la Via Lattea. Al suo interno 400 miliardi di stelle formano quest’isola dell’universo. Per trovarne un’altra simile – lasciando perdere le galassie satellite che la circondano – bisogna compiere circa 2,5 milioni di anni luce e raggiungere la galassia di Andromeda. Ecco perché è giusto conoscere e approfondire com’è fatto il nostro giardino cosmico.

Non è semplice però studiarlo dal suo interno. Le polveri e la forte luminosità presente verso il centro galattico sono elementi che ne limitano gli studi e le ricerche. Per superare queste problematiche è nata la missione Gaia dell’Esa, che ha l’obiettivo di creare una mappa multidimensionale estremamente precisa e completa della Via Lattea. In questo modo si permette agli astronomi di ricostruire la struttura e l’evoluzione passata della nostra galassia in un arco di tempo di miliardi di anni (sembra che la Via Lattea abbia poco più di 13 miliardi di anni) e di comprendere meglio il ciclo di vita delle stelle e il nostro posto nell’universo

Recentemente è stato rilasciato il “Gaia Data Release 3”, il terzo catalogo che contiene nuovi e approfonditi dettagli su quasi due miliardi di stelle presenti nella Via Lattea e nuove informazioni, tra cui composizioni chimiche, temperature, colori, masse ed età delle stelle, nonché la velocità con la quale si avvicinano o si allontanano da noi, chiamata “velocità radiale”.

La maggior parte delle informazioni è stata rilevata grazie ai dati ottenuti con la spettroscopia, una tecnica che seziona la luce stellare nei suoi elementi costituenti, come se si trattasse di un arcobaleno e che permette di risalire alla composizione della stella o dell’oggetto studiato. Tra gli elementi esaminati rientrano anche sottoinsiemi speciali di stelle, come quelle che cambiano luminosità nel corso del tempo.

Una delle scoperte più sorprendenti emerse dai nuovi dati è che Gaia è in grado di rilevare i terremoti stellari, ovvero piccoli movimenti sulla superficie delle stelle, che modificano la forma delle stelle stesse, attività per la quale l’osservatorio non era stato concepito in origine. In precedenza aveva già rilevato oscillazioni radiali, che producono un’espansione e una compressione ciclica delle stelle, che pur mantengono la forma sferica.

Ma adesso il telescopio dell’Esa ha individuato anche altre vibrazioni, più simili a tsunami su vasta scala. Queste oscillazioni non radiali modificano la forma complessiva di una stella e sono quindi più difficili da rilevare. Gaia ha scoperto l’esistenza di forti movimenti non radiali in migliaia di stelle, anche in quelle raramente osservate in precedenza, smentendo così la teoria attuale secondo cui queste stelle non dovrebbero subire terremoti.

«I terremoti stellari ci insegnano molto sulle stelle, in particolare sul loro funzionamento interno. Il telescopio sta aprendo una miniera d’oro per la cosiddetta “astrosismologia” delle stelle massicce», afferma Conny Aerts della Ku Leuven in Belgio, membro della collaborazione Gaia.

Il materiale di cui sono fatte le stelle può dirci dove sono nate e dove hanno viaggiato e quindi la storia della Via Lattea. I dati rilevati da Gaia stanno tracciando la più estesa “mappa chimica” della galassia, dagli oggetti più vicini a noi fino alle galassie più piccole che circondano la nostra, le galassie satelliti.

Si è scoperto recentemente che alcune stelle contengono più “metalli pesanti” di altre. Durante il Big Bang si sono formati solo elementi leggeri, ossia idrogeno ed elio. Tutti gli altri elementi più pesanti, che in astronomia sono chiamati metalli, vengono generati all’interno delle stelle. Quando le stelle muoiono, rilasciano questi metalli nel gas e nella polvere interstellare, il cosiddetto mezzo interstellare, all’interno del quale si andranno a formare nuove stelle.

La formazione e la morte delle stelle quindi, determinano la nascita di un ambiente sempre più ricco di metalli. Pertanto, la composizione chimica di una stella è un po’ come il suo Dna in quanto ci fornisce informazioni essenziali sulla sua origine. Con Gaia, si è riusciti a capire che alcune stelle della nostra galassia sono composte da materiale primordiale, mentre altre, come il nostro Sole, sono fatte di materia arricchita da generazioni precedenti di stelle.

Le stelle più vicine al centro e al piano della nostra galassia sono più ricche di metalli rispetto a quelle che si trovano a distanze maggiori. Gaia ha anche identificato stelle appartenenti a galassie diverse dalla nostra in base alla loro composizione chimica. «Il nostro Sole e di conseguenza noi uomini, apparteniamo a un sistema in continua evoluzione, formatosi grazie all’assemblaggio di stelle e gas di diversa origine», afferma Alejandra Recio-Blanco dell’Observatoire de la Côte d’Azur in Francia, membro della collaborazione Gaia. 

Va ricordato che la Via Lattea, così come moltissime altre galassie, è il risultato dello scontro di numerose galassie più piccole, un fenomeno ancora in atto. Altri documenti pubblicati testimoniano la portata e il potenziale delle scoperte di Gaia. Un nuovo catalogo di stelle binarie – stelle che vivono in coppia ruotando una attorno all’altra – presenta la massa e l’evoluzione di oltre 800 mila sistemi binari, mentre una nuova indagine sugli asteroidi – che comprende 156 mila corpi rocciosi – analizza più a fondo l'origine del nostro Sistema solare.

Gaia sta anche rivelando informazioni su 10 milioni di stelle variabili, su misteriose macromolecole presenti nel gas tra le stelle, nonché su quasar – galassie con un buco nero al centro estremamente attivo – e galassie lontane. «Gaia è una “missione di ricerca”» e quindi, «scandagliando più volte l’intero cielo e facendone continui confronti» – spiega Timo Prusti, scienziato di progetto per Gaia presso l’Esa – «è destinato a fare scoperte che sfuggirebbero ad altre missioni più specializzate».

L’Everest e i cambiamenti climatici

Il campo base dell’Everest, è diventato molto pericoloso e presto sarà spostato in un altro luogo. Attualmente si trova sul ghiacciaio del Khumbu, il quale si sta assottigliando così velocemente da creare una serie di problemi. Il nuovo sito si troverà a una quota più bassa rispetto a quello attuale, dove non c’è ghiaccio per tutto l’anno.

Si è arrivati a questa decisione dopo che numerosi alpinisti hanno visto comparire crepacci molto vicino alle loro tende. «Trasportare il campo base non è cosa semplice, perché richiede la collaborazione di tutte le società che organizzano trekking e salite all’Everest e che oggi sono decine», ha detto Taranath Adhikari, direttore generale del dipartimento del Turismo in Nepal.

Attualmente il campo si trova a 5.364 metri di quota, mentre il nuovo attendamento verrà posto tra 200 e 400 metri più in basso. A quelle quote un dislivello anche di soli 100 metri non è cosa semplice e dunque per gli alpinisti la salita all’Everest diverrà un po’ più impegnativa, visto che dovranno aggiungere alla salita questo nuovo dislivello.

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