La crisi dell’ex Ilva di Taranto ha conosciuto una nuova brusca accelerazione negli ultimi giorni, e come da copione a pagarne il prezzo più alto rischiano di essere i lavoratori. Con l’altoforno 1 (Afo1) fermo dopo l’incendio del 7 maggio e il successivo sequestro giudiziario, Acciaierie d’Italia (AdI), in amministrazione straordinaria, ha richiesto la cassa integrazione per 3.926 dipendenti, di cui 3.538 solo a Taranto.

Questo nuovo stop, che si aggiunge a una situazione già critica, mette a rischio fino a 5.500 posti di lavoro diretti e migliaia nell’indotto, mentre l’atteso accordo con la cordata azera Baku Steel, che sembrava imminente, vacilla pericolosamente.

Per i lavoratori il futuro è un’incognita. E i sindacati invocano un intervento urgente del governo.

L’incendio e l’ombra della chiusura

L’incidente all’Afo1 ha dimezzato la capacità produttiva dello stabilimento tarantino, spingendo AdI a ricorrere massicciamente alla cassa integrazione. Attualmente, 4.046 lavoratori sono coinvolti: 3.538 a Taranto, 178 a Genova, 163 a Novi Ligure, 45 a Racconigi 26 a Marghera e altri nelle sedi minori.

Prima dell’incidente, circa 3.000 dipendenti erano già in cassa, su un totale di 10.300 lavoratori diretti, 1.500 in amministrazione straordinaria e oltre 4.000 nell’indotto. Fonti sindacali temono che il numero possa salire, con impatti devastanti sull’economia locale. «Ogni volta che si verificano queste crisi, a pagare sono i lavoratori», ha denunciato Michele De Palma, segretario generale della Fiom-Cgil, durante un incontro a Taranto con i delegati sindacali. «Sono loro che hanno difeso la salute, la sicurezza, gli impianti e il futuro della siderurgia italiana».

L’incertezza occupazionale è poi fortemente aggravata dal possibile naufragio dell’accordo con Baku Steel, la cordata azera interessata a rilevare l’ex Ilva con il supporto minoritario di Invitalia. L’incidente all’Afo1 e i ritardi nella messa in sicurezza dell’impianto, come evidenziato da AdI in risposta alla magistratura, hanno compromesso la fiducia degli investitori stranieri, con cui era stato aggiunto un accordo di massima per la vendita dell’acciaieria.

Il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, pur rassicurando sull’interesse degli azeri, ha ammesso che il mancato svuotamento rapido dei materiali interni all’altoforno rischia di renderlo inagibile per mesi, riducendo la produzione da 6 a circa 4 milioni di tonnellate di acciaio annue.

Senza un partner industriale, il destino dello stabilimento appare segnato. I 100 milioni di euro stanziati dal governo come sostegno temporaneo coprono appena tre mesi di spese, lasciando irrisolti i problemi strutturali. Per i lavoratori, ciò si traduce in un prolungamento della cassa integrazione o, nel peggiore dei casi, in licenziamenti.

L’indotto, che conta migliaia di addetti, è altrettanto a rischio, con aziende fornitrici già in difficoltà per i mancati pagamenti.

Scontro Urso-magistratura

Nel frattempo, è in corso uno scontro tra Urso e la magistratura. Il motivo è legato all’atto con cui è stato disposto il sequestro probatorio dell’impianto, dopo l’incendio del 7 maggio. Secondo il ministro, la procura ha disposto l’inibizione all’uso dell’impianto «senza però autorizzare quegli interventi assolutamente necessari che sin dal primo momento i responsabili dell'Altoforno avevano ritenuto ed evidenziato come indispensabili, come emerge anche nell'atto del sequestro delle 5 di mattina, per mettere in salvaguardia l'impianto».

«I dati pubblicati oggi da alcuni quotidiani – ha continuato Urso – dimostrano che la procura ha detto il falso». «L’impianto è compromesso e la cosa più grave è che, per giustificare questa decisione, qualche giorno dopo la procura ha affermato con un comunicato ufficiale che nessuno aveva mai chiesto questa tipologia di intervento. I documenti che sono emersi in queste ore dimostrano il contrario: mi appello al concorso di tutti, ci vuole assolutamente che tutte le istituzioni collaborino con piena lealtà, come in questo caso, purtroppo, non è clamorosamente avvenuto».

«Ne pagheranno il costo, purtroppo – ha concluso il ministro – la produzione, la possibilità di rilanciare lo stabilimento, ma anche migliaia e migliaia di lavoratori di Taranto, della sua filiera siderurgica e dell’indotto».

Le richieste dei sindacati

I sindacati hanno reagito con forza, chiedendo un intervento diretto della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. In una lettera firmata dai segretari generali di Fim, Fiom e Uilm – Ferdinando Uliano, Michele De Palma e Rocco Palombella – è stata richiesta una «convocazione urgente» del tavolo permanente sull’ex Ilva. L’obiettivo è ottenere chiarezza sulle scelte strategiche per garantire occupazione, sicurezza e sostenibilità ambientale.

«Noi avevamo un piano di ripartenza – ha ricordato De Palma – basato sulla decarbonizzazione, che salvava l’occupazione, l’ambiente e la salute dei cittadini». La Fiom insiste su un tavolo di confronto per definire un piano industriale che preservi i posti di lavoro e modernizzi gli impianti. Fim e Uilm, dopo un’ulteriore fuga di gas in acciaieria 2, hanno definito «inaccettabile» l’attesa di incidenti prima di interventi risolutivi, mentre AdI ha minimizzato, parlando di normalità ripristinata.

Anche l’opposizione prova a farsi sentire: il Pd, attraverso i capigruppo in commissione Bilancio e Attività produttive, Ubaldo Pagano e Vinicio Peluffo, propone la nazionalizzazione come unica via d’uscita. «La fabbrica cade a pezzi e necessita di investimenti che solo lo Stato può garantire», affermano, avvertendo il rischio che Taranto diventi «una nuova Bagnoli». Criticano l’immobilismo del governo e le «promesse propagandistiche» di Urso, accusato di scaricare la responsabilità sulla magistratura.

La nazionalizzazione, secondo il Pd, consentirebbe di finanziare la decarbonizzazione e tutelare i lavoratori, evitando che un nuovo acquirente replichi l’esperienza di ArcelorMittal, che ha sfruttato l’impianto senza investire. Tuttavia, il governo sembra orientato a cercare partner privati, con Invitalia in ruolo di minoranza, nonostante i dubbi sulla fattibilità di questa strategia.

Intanto i lavoratori dell’ex Ilva continuano a vivere nell’incertezza più totale, e con migliaia di famiglie in bilico e un indotto sull’orlo della crisi Taranto teme un declino irreversibile. La città, già segnata da decenni di tensioni tra produzione e salute pubblica, si prepara a un’estate di mobilitazioni. I sindacati promettono battaglia, mentre i lavoratori attendono risposte concrete da un governo che finora ha offerto solo timide rassicurazioni.

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