L’alimentazione non è più un diritto universale: si è trasformata in merce, ricatto e strumento di controllo nelle mani di pochi. Il cibo racconta oggi una politica della fame costruita a tavolino
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola da sabato 28 giugno
Nel nostro tempo il cibo ha smesso di essere solo nutrimento. Non è più, o almeno non soltanto, questione di agricoltura, cultura, sapori o bisogni primari. È potere, e in quanto tale è strategia e dominio, arma e ricatto. L’alimentazione, un tempo relegata ai margini dei grandi scenari geopolitici, è oggi l’asse intorno al quale ruotano guerre, investimenti, migrazioni e nuove forme di colonialismo. Il controllo del cibo è il controllo della vita. La fame non è più il sintomo di una carestia naturale, ma l’esito calcolato di uno squilibrio deliberato. Si muore di fame perché qualcuno, altrove, ha deciso cosa coltivare, dove, per chi, e con quali mezzi.
In questo nuovo ordine alimentare mondiale la terra è il primo campo di battaglia. Le mappe della fame e quelle della ricchezza agricola si sovrappongono perfettamente: chi non possiede la terra – o peggio, chi l’ha persa – è condannato a nutrire gli altri, senza mai nutrirsi davvero. Il fenomeno del land grabbing, letteralmente "accaparramento di terre", è il paradigma di questa dinamica brutale. In Africa, in Asia, in America Latina, milioni di ettari di terreno fertile vengono sottratti alle comunità locali per essere affidati, tramite concessioni pluridecennali, a governi stranieri o a multinazionali dell’agroindustria.
Si tratta di un colonialismo senza cannoni, ma non per questo meno violento. Non si impongono più bandiere, ma contratti. Non si invadono territori, ma si acquisiscono con firme, sigilli e notai. Il risultato è comunque lo stesso: interi popoli privati della loro sovranità alimentare, ridotti a spettatori affamati di un’agricoltura che produce per altri mercati, sotto altre logiche, in nome di una redditività che ha soppiantato il bisogno.
Il prezzo dell’acqua
La terra, tuttavia, da sola non basta. Serve l’acqua, bene primario per eccellenza e nuova moneta del potere. E la guerra per l’acqua è già iniziata, anche se pochi hanno il coraggio di chiamarla con il suo nome. In Palestina, Israele controlla in modo unilaterale le falde e le risorse idriche, condizionando la vita quotidiana dei villaggi palestinesi in modo chirurgico.
In India, la crisi idrica generata dalla monocoltura intensiva ha spinto migliaia di contadini al suicidio, prosciugando i pozzi e saturando le terre di debiti. In Sudamerica, l’acqua viene privatizzata e distribuita secondo logiche di profitto, mentre le coltivazioni destinate all’esportazione prosciugano interi ecosistemi. Tra tutte, la coltura dell’avocado – l’“oro verde” dei mercati occidentali – rappresenta uno degli esempi più feroci di questo processo.
In Cile, nella regione di Petorca, interi corsi d’acqua sono stati deviati illegalmente per alimentare le piantagioni intensive di avocado destinate all’export. I fiumi sono diventati letti aridi, le falde si sono abbassate a livelli irreversibili, mentre la popolazione locale riceve l’acqua (razionata, ovviamente) con autobotti municipali. Quella che manca nei rubinetti delle case continua a scorrere nei canali artificiali che irrigano i frutteti privati.
Per ogni chilo di avocado servono tra i 600 e i 2.000 litri d’acqua: una cifra insostenibile in territori già colpiti dalla siccità, e che rende evidente l’assurdità di un modello produttivo pensato esclusivamente per soddisfare la domanda dei consumatori europei e nordamericani. L’industria dell’avocado, presentata come simbolo di alimentazione sana e sostenibile, si fonda in realtà sull’esaurimento delle risorse idriche, sullo svuotamento dei territori e sull’impoverimento delle comunità.
In Messico, secondo produttore mondiale, le cose non vanno meglio: le coltivazioni di avocado occupano superfici crescenti, spesso ottenute tramite deforestazione illegale. Intere falde acquifere sono messe sotto pressione, mentre i cartelli del narcotraffico si inseriscono nella filiera per controllare produzione, distribuzione e accesso alla terra.
Lì dove prima c’erano foreste e coltivazioni miste, ora si estendono monoculture assetate che sottraggono l’acqua alla collettività e la concentrano nelle mani di pochi grandi produttori. La fame d’acqua dell’avocado – come quella dell’allevamento intensivo, del cotone o delle mandorle – non è una mera questione agricola, ma un disegno politico-economico in cui il diritto all’acqua è subordinato al profitto.
Dighe e confini
Così, ciò che dovrebbe essere bene comune per eccellenza – l’acqua che nutre ogni vita, che scorre libera, che appartiene a tutti – viene trasformato in merce. Dove scorre un fiume, si costruisce una diga. Dove si costruisce una diga, si alza un confine invisibile ma impenetrabile: chi controlla la sorgente impone la sete a valle. L’acqua, privatizzata, sorvegliata, deviata, diventa un’arma silenziosa, una leva di dominio, un coefficiente strategico. È il paradosso del nostro secolo: assetati in terre coltivate, senz’acqua nei luoghi dove si produce cibo per chi ne ha già in abbondanza. È una sete programmata, calibrata, calcolata e, soprattutto, diseguale.
A completare il quadro c’è la tecnologia, la nuova frontiera del dominio agricolo. Se il Novecento è stato il secolo della terra e della fatica contadina, il nostro è il tempo dei brevetti, delle biotecnologie, delle piattaforme digitali che regolano l’intera filiera alimentare. Oggi il contadino non semina ciò che conosce, ma ciò che può acquistare. Le sementi non si tramandano più: si vendono. Si registrano, si brevettano, si proteggono con clausole che vietano la riproduzione autonoma.
Chi coltiva è legato a doppio filo al produttore di sementi, al fornitore di fertilizzanti, al padrone dei software agricoli. E chi possiede il codice genetico delle piante possiede, di fatto, il futuro dell’agricoltura. Il sapere contadino – orale, lento, collettivo – viene esautorato da una conoscenza tecnocratica ed escludente, che riduce la terra a superficie di coltura e il cibo a variabile industriale.
Le startup dell’agritech promettono orti nel deserto e serre verticali che sfidano il cielo, ma dietro a queste meraviglie si nasconde una centralizzazione estrema del potere agricolo, nelle mani di pochissimi attori globali.
Difensori di facciata
E poi c’è il volto più ipocrita di questo meccanismo: quello che si presenta sotto le spoglie della sostenibilità. Il greenwashing alimentare è oggi una delle pratiche più raffinate del marketing politico ed economico. Le grandi multinazionali si proclamano custodi della biodiversità, difensori dell’ambiente, promotori dell’agricoltura rigenerativa, mentre continuano a sfruttare suoli, persone e mercati.
Le etichette verdi, i marchi bio, le narrazioni rassicuranti sul packaging servono a costruire una retorica dell’innocenza che ha come unico scopo quello di mascherare la violenza strutturale del sistema. In nome del pianeta, si perpetua il saccheggio. In nome della natura, si asservisce l’agricoltura ai dettami del profitto.
Il cibo, infine, non è solo economia: è anche identità, cultura, appartenenza. E proprio per questo è diventato un terreno di appropriazione simbolica. Il nazionalismo alimentare, oggi in piena espansione, difende la “purezza” del cibo locale solo quando serve a escludere l’altro.
La sovranità alimentare, da diritto dei popoli, diventa così paravento ideologico per nuove forme di esclusione. I piatti della tradizione vengono rivendicati come baluardi contro l’invasione, ma i loro ingredienti continuano a venire da altrove, raccolti da mani migranti, spesso invisibili. Si pretende autenticità, ma si ignora la filiera. Si invoca la patria, ma si delega la produzione al mercato globale.
Insomma, la geopolitica del cibo è oggi lo specchio più crudele del nostro tempo: racconta un mondo dove il diritto a mangiare non è più universale, ma condizionato. Dove la fame non è assenza di cibo, ma assenza di accesso. Dove il potere si misura non in armi né in denaro, ma in ettari, litri, semi. Un mondo in cui, per dirla senza giri di parole, chi controlla il cibo controlla la vita.
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