A Torino la giustizia ha messo in mora la burocrazia. Con un’ordinanza depositata il 27 ottobre 2025, la Corte d’Appello ha respinto la richiesta del ministero dell’Interno di sospendere la sentenza che aveva condannato la questura per le cosiddette “code discriminatorie”. Entro l’8 dicembre la questura dovrà quindi riorganizzare i propri uffici e garantire che ogni richiedente asilo possa essere ricevuto tempestivamente, senza file notturne, liste chiuse o richieste di documenti non previste dalla legge.

Il rigetto della sospensiva non è un tecnicismo. I giudici hanno chiarito che l’appello del ministero «non pare manifestamente fondato» e che l’amministrazione non ha dimostrato alcun pregiudizio “grave e irreparabile”, limitandosi a evocare genericamente uno “stravolgimento dell’attività”. In altre parole: l’inefficienza non può più essere una giustificazione per violare un diritto fondamentale.

Il caso nasce da una class action promossa da diciotto richiedenti asilo e dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI). La sentenza di primo grado, emessa il 4 agosto 2025, aveva dichiarato discriminatorio il modello organizzativo della questura, basato su accessi contingentati e code fisiche quotidiane. Il tribunale aveva definito «mortificante» il sistema e ordinato la riorganizzazione entro quattro mesi, richiamando come riferimento il “modello Milano”, fondato su prenotazioni online e trasparenza dei flussi.

Il principio affermato è chiaro: la formalizzazione della domanda di asilo non è una concessione amministrativa, ma un servizio pubblico dovuto. Il decreto legislativo 25 del 2008, che recepisce la direttiva europea 2013/32/UE, stabilisce che la registrazione debba avvenire entro tre giorni lavorativi, prorogabili fino a dieci solo in casi eccezionali. Eppure in molte città italiane l’attesa supera i limiti di legge: a Milano oltre cinque mesi, secondo i dati raccolti da Naga e ASGI; a Venezia e Vicenza sono in corso ricorsi collettivi per ritardi analoghi.

L’ordinanza torinese ha immediato effetto pratico: la sentenza diventa esecutiva e obbliga la questura a riformare il proprio assetto interno. Le questure che adottano prassi simili dovranno quindi adeguarsi in fretta per evitare nuove condanne. È un precedente operativo che impone di superare le “quote”, eliminare i filtri arbitrari e riorganizzare gli sportelli per garantire la presa in carico senza discriminazioni.

La decisione della Corte d’Appello si inserisce in una tendenza giurisprudenziale che, di fronte all’inerzia amministrativa, sta riscrivendo l’equilibrio tra cittadini e Stato. Il Consiglio di Stato, con la sentenza numero 2819 del 2025, ha stabilito che i termini procedurali decorrono dal momento in cui il cittadino richiede l’appuntamento, e non dalla data fissata. Un principio che colpisce direttamente la pratica delle “agende chiuse”, spesso utilizzata per sospendere di fatto i diritti. In sintesi, non è più il richiedente a dover aspettare che la pubblica amministrazione decida di agire: è lo Stato a dover rispondere nei tempi previsti dalla legge.

La condanna di Torino, confermata in appello, segna inoltre una svolta culturale: i giudici affermano che la scarsità di personale o risorse non può legittimare la compressione di un diritto fondamentale. Quando l’inefficienza diventa sistematica, non è più una questione gestionale ma una discriminazione.

L’ordinanza, infine, è anche una prova per la politica. Se le questure non si adegueranno spontaneamente, saranno i tribunali a ordinare le riforme organizzative, imponendo scadenze perentorie e sanzioni economiche. È la giustizia a colmare il vuoto di governo, traducendo in obbligo ciò che la legge prevede da anni.

Per le associazioni che operano sul territorio, la decisione è una vittoria simbolica e concreta. «L’accesso alla protezione internazionale è un diritto, non una gentilezza amministrativa» ricorda ASGI, che ha promosso anche le class action in Lombardia e Veneto. Le lunghe attese per un appuntamento – cinque mesi in media – significano mesi di limbo giuridico: senza documenti, senza accoglienza, senza possibilità di lavoro o assistenza sanitaria. Ogni giorno di ritardo si traduce in esclusione.

Situazioni simili del resto si riscontrano in diverse aree del Paese. A Roma si segnalano appuntamenti rinviati fino a quattro mesi e richieste di documenti non previsti dalle norme. A Bologna, secondo i dati del progetto “Attendere, prego”, le prenotazioni online restano chiuse per settimane. A Trieste si registrano ritardi medi di due mesi, mentre a Napoli si segnalano casi di accesso subordinato alla disponibilità di interpreti, in violazione del principio di tempestività. Tutte queste prassi – osservano gli operatori legali – producono un effetto identico: impedire a chi fugge da guerre o persecuzioni di esercitare un diritto riconosciuto dalla Costituzione e dal diritto europeo.

L’8 dicembre, data fissata per la riorganizzazione della Questura di Torino, è più di una scadenza. È il banco di prova di uno Stato che dovrà dimostrare di saper rispettare la propria legge. Se la riforma sarà attuata, potrà diventare un modello per tutto il Paese: un sistema trasparente, digitale, capace di garantire dignità e legalità a chi chiede asilo. Se resterà lettera morta, toccherà alla magistratura ricordare, ancora una volta, che i diritti non si mettono in fila.

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